Per ciò che riguarda la questione della presenza di elementi di Alleanza Nazionale nel nuovo governo e del rischio che secondo alcuni media americani questo potrebbe comportare per gli sviluppi politici in Italia, Martino ha spiegato che sarà proprio la struttura stessa del nuovo sistema elettorale e del nuovo sistema politico ad impedire e ad evitare il rischio di rigurgiti estremisti.
Durante una conferenza stampa Martino ha anche affrontato la questione dell'apparente sfiducia che sembrano dare in questi giorni i mercati internazionali alla borsa italiana.
Secondo il ministro degli esteri la sfiducia è dettata più da nervosismo e dai normali movimenti che caratterizzano l'andamento dei mercati che da un cambiamento di vedute sulle prospettive del rischio Italia:
Tra Russia e Nato, invece, ci vuole da subito una cooperazione più approfondita, ci vogliono consultazioni politiche e la concertazione nel processo decisionale.
La Russia firmerà il partenariato per la pace senza condizioni, ha dichiarato in una conferenza stampa spiegando che il repentino voltafaccia era dovuto a precise istruzioni in questo senso ricevute dal presidente Boris Eltsin.
Fine quindi delle rivendicazioni russe per avere uno statuto speciale per il suo paese, fine dell'ambizione a ottenere il riconoscimento ufficiale del suo status di grande potenza per nulla comparabile a quello degli altri paesi dell'Est, cioè degli ex satelliti dell'ex impero sovietico?
Per motivi evidenti, aveva detto qualche ora prima Grachev, le relazioni tra Russia e Nato non sono contenibili nel quadro previsto dal partenariato per la pace.
Del resto proprio la crisi bosniaca dimostra, aveva aggiunto, l'esigenza della concertazione e della codecisione se la Nato vuole davvero svolgere in modo efficace la sua missione di guardiano della pace mondiale.
Fine delle ambizioni o ennesimo voltafaccia su una vicenda sulla quale Mosca negli ultimi mesi non ha cessato di cambiare posizioni, di dire tutto e il contrario di tutto?
Fino a qualche ora prima, infatti, la Russia di Eltsin sembrava decisa a non mollare, nonostante la lunga serie di no collezionati nelle scorse settimane nelle capitali occidentali, a insistere sulla dottrina della concertazione, in parole povere su una riedizione di Yalta, che le riconoscesse in modo più o meno implicito un diritto di veto sulle decisioni Nato.
Presa in mezzo tra due opposte esigenze, quella di non umiliare una Russia ipersuscettibile e dai nervi nazionalistici scoperti e quella di non allarmare, anzi di rassicurare i suoi ex satelliti dell'Est che dalla Nato vorrebbero una garanzia di sicurezza per l'appunto come polizza anti rischio russo, si ritrovava però costretta a un gioco di difficili equilibrismi.
Che comunque non le impediva - come hanno fatto ieri i sedici ministri della difesa riuniti a Bruxelles, con Cesare Previti al suo debutto sulla scena atlantica - di porre alcuni punti fermi e non negoziabili: il no al riconoscimento a Mosca di un diritto di veto sulle proprie decisioni, compresa la futura adesione dei paesi dell'Est, e il no alla firma di un accordo o un protocollo separato sui propri rapporti con la Russia.
I nuovi legami avrebbero potuto vertere sulle questioni politiche e di sicurezza, in particolare e prima di tutto su quelle relative alla non proliferazione nucleare.
Lo stesso dialogo potrebbe, anzi dovrebbe, svolgersi con l'alleanza> aveva dichiarato ieri Ruehe mentre il segretario americano alla difesa, William Perry, insisteva sulla necessità parallela di approfondire e accelerare il partenariato con i 18 paesi ex comunisti che vi hanno aderito, tentando di risolvere al più presto il problema del finanziamento del programma di cooperazione militare.
Fatto il governo di unità nazionale, guidato dall'Anc e composto anche dai partiti di Frederick De Klerk e di Mangosuthu Buthelezi, è venuto il momento di indicare la strada da percorrere.
Si trattava di trovare la formula per elevare la condizione economica dei 30 milioni di neri senza far crollare quella dei 5 milioni di bianchi del Sudafrica.
L'attenzione nei confronti della minoranza bianca che nei 300 anni precedenti della storia sudafricana aveva conservato tutto il potere e tutte le ricchezze, non nasceva da spinte umanitarie ma profondamente pragmatiche.
Passati gli anni della lotta, soprattutto con la presentazione del suo programma economico all'inizio del 1993, l'Anc ha incominciato ad attraversare il guado dalla rivoluzione alle riforme.
È ciò che Nelson Mandela intende spendere entro la fine del secolo; è il costo della rinascita del Sudafrica, una speranza e un piano gigantesco che per esigenza di sintesi la burocrazia chiama Rdp: programma di ricostruzione e sviluppo.
Ma è anche la base sulla quale è stato costruito l'accordo politico che probabilmente eviterà al Sudafrica un destino simile a quello di quasi tutti gli altri paesi del continente, alla fine del colonialismo.
Come ha spiegato ieri Mandela, nel prossimo anno fiscale che incomincia a giugno il nuovo governo intende spendere 2 miliardi e mezzo di rand, circa 1.250 miliardi di lire.
A partire da subito i bambini al di sotto dei 6 anni e le donne in attesa non pagheranno più le spese sanitarie, l'educazione obbligatoria e gratuita è estesa ai bambini di tutte le razze fino all'età di 9 anni.
L'investimento salirà progressivamente anno dopo anno, fino a raggiungere i 10 miliardi di Rand nel 1999 quando dovranno essere conseguiti gli altri obiettivi del programma: 2 milioni e mezzo di posti di lavoro, un milione di case, elettrificazione diffusa.
Dove trovare queste risorse? Jay Naidoo, ministro senza portafoglio responsabile dell'attuazione del programma, ex leader del Cosatu, il grande sindacato nero, ieri faceva capire che saranno aumentate le tasse: un nodo controverso che da tempo preoccupa i bianchi.
Perché il clima di fiducia e di collaborazione con i bianchi, nato durante le elezioni, dev'essere mantenuto: è il punto essenziale della politica di Mandela.
Per i prossimi tre anni, fino ad ora sono già stati promessi aiuti per quasi 900 milioni di dollari, 600 solo dagli Stati Uniti, quasi il 10% del prodotto interno lordo sudafricano.
(nostro servizio) New York - condanne a vita: la pena inflitta in primo grado per l'attentato al World Trade Center ha rispettato le richieste del pubblico ministero e ha inflitto 240 anni di carcere ciascuno a tre dei quattro imputati riconosciuti colpevoli, lo scorso 26 febbraio, del più grave atto di terrorismo nella recente storia americana (per il quarto la sentenza con la stessa pena era attesa in tarda serata).
La decisione del tribunale era parsa scontata e non ha sorpreso neppure Mohammed Salameh, Ahmad Ajaj, Mahmud Abouhalima e Nidal Ayyad, il gruppo di fondamentalisti islamici sotto processo.
I quattro erano stati riconosciuti colpevoli di aver preparato ed eseguito l'attentato che il 26 febbraio del 1993 fece esplodere una potentissima carica di esplosivo nel garage dei più alti grattacieli di New York:
tra le macerie persero la vita sei persone e altre mille rimasero ferite, il cuore finanziario della città tremò e una delle due torri gemelle del World Trade Center rimase chiusa per settimane con danni per centinaia di milioni di dollari.
ha spiegato il giudice Kevin Duffy al termine di un'insolita udienza finale dove, segno delle profonde tracce lasciate in America dall'attentato, ai condannati e al marito di una delle vittime è stato consentito di rivolgersi alla corte.
Oltre all'appello, che alcuni tra i condannati hanno già annunciato, altri due imputati sono ancora oggi a piede libero e secondo fonti americane si trovano probabilmente in Irak: Ramzi Yousef, considerato la mente dell'attentato, e Aboud Yasin.
Il suo Arresto, anche per aver collaborato alla preparazione della bomba, fu seguito dalla cattura di Ayyad, un chimico, finito alla sbarra per aver ordinato le sostanze utilizzate nel fabbricare l'esplosivo e per essersi incaricato di fare da portavoce con la stampa, rivendicando l'attentato come risposta all'aiuto dato dagli Stati Uniti a Israele.
La scoperta dell'appartamento di New York utilizzato per preparare l'attentato, portò all'arresto degli ultimi due: Abouhalima e Ajaj, quest'ultimo condannato per aver fornito le conoscenze tecniche necessarie.
Kigali - dopo il fallimento di lunedì, l'inviato speciale dell'Onu Iqbal Riza è riuscito ieri ad avviare i suoi colloqui nella capitale ruandese, ma in tutto il paese il massacro continua.
I combattimenti sono proseguiti in varie zone del paese, soprattutto a Sud, mentre la capitale è stata cannoneggiata dai ribelli del fronte patriottico proprio mentre l'emissario dell'Onu incontrava alcuni rappresentanti dell'esercito regolare.
I combattimenti sono particolarmente intensi nella zona di Gitarama, la sede del governo provvisorio intorno alla quale le truppe governative, in maggioranza di etnia Hutu, stanno cercando di bloccare l'avanzata dai guerriglieri Tutsi.
Dopo i colloqui avuti con i leader ribelli nei pressi della frontiera con l'Uganda, l'inviato speciale dell'Onu doveva raggiungere la capitale in auto, ma i rischi che avrebbe corso l'hanno indotto a usare l'aereo.
Arrivato a Kigali, l'emissario dell'Onu è stato scortato in un blindato per trasporto truppe fino al ministero della difesa, dove ha incontrato alcuni alti ufficiali dell'esercito.
L'obiettivo di Riza è quello di ottenere la collaborazione delle parti in conflitto affinché le forze dell'Onu assumano il pieno controllo dell'aeroporto di Kigali e 5.500 caschi blu africani possano raggiungere il Ruanda così come deciso la settimana scorsa dal consiglio di sicurezza.
Il fatto che gli scontri proseguano seppure con minore intensità ha impedito ancora una volta agli operatori umanitari di far arrivare viveri e medicinali alle circa quindicimila persone che vivono sotto la protezione dell'Onu nella capitale.
I leader delle due fazioni non hanno risposto in via ufficiale all'appello rivolto loro dall'inviato Onu affinché la tregua, che sarebbe dovuta scadere alle 16 ora italiana di ieri, fosse prorogata di un giorno per consentire all'inviato dell'Onu di ultimare i suoi colloqui con i rappresentanti del governo.
Erano ben 2.500 i soldati dell'Onu a Kigali, con mezzi blindati e armi pesanti, quando gli squadroni della morte governativi hanno iniziato il massacro.