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s-1 E poi che i due rabbiosi fuor passati sovra cu' io avea l'occhio tenuto, rivolsilo a guardar li altri mal nati.
s-2 Io vidi un, fatto a guisa di leuto, pur ch'elli avesse avuta l'anguinaia tronca da l'altro che l'uomo ha forcuto.
s-3 La grave idropesì, che dispaia le membra con l'omor che mal converte, che 'l viso non risponde a la ventraia, faceva lui tener le labbra aperte come l'etico fa, che per la sete l'un verso 'l mento e l'altro in rinverte.
s-4 «O voi che sanz'alcuna pena siete, e non so io perché, nel mondo gramo», diss'elli a noi, «guardate e attendete a la miseria del maestro Adamo; io ebbi, vivo, assai di quel ch'i' volli, e ora, lasso!, un gocciol d'acqua bramo.
s-5 Li ruscelletti che d'i verdi colli del Casentin discendon giuso in Arno, faccendo i lor canali freddi e molli, sempre mi stanno innanzi, e non indarno, ché l'imagine lor vie più m'asciuga che 'l male ond'io nel volto mi discarno.
s-6 La rigida giustizia che mi fruga tragge cagion del loco ov'io peccai a metter più li miei sospiri in fuga.
s-7 Ivi è Romena, dov'io falsai la lega suggellata del Batista; per ch'io il corpo arso lasciai.
s-8 Ma s'io vedessi qui l'anima trista di Guido o d'Alessandro o di lor frate, per Fonte Branda non darei la vista.
s-9 Dentro c'è l'una già, se l'arrabbiate ombre che vanno intorno dicon vero; ma che mi val, c'ho le membra legate?
s-10 S'io fossi pur di tanto ancor leggero ch'i' potessi in cent'anni andare un'oncia, io sarei messo già per lo sentiero, cercando lui tra questa gente sconcia, con tutto ch'ella volge undici miglia, e men d'un mezzo di traverso non ci ha.
s-11 Io son per lor tra fatta famiglia; e' m'indussero a batter li fiorini ch'avevan tre carati di mondiglia».
s-12 E io a lui: «Chi son li due tapini che fumman come man bagnate 'l verno, giacendo stretti a' tuoi destri confini?».
s-13 «Qui li trovai - e poi volta non dierno -», rispuose, «quando piovvi in questo greppo, e non credo che dieno in sempiterno.
s-14 L'una è la falsa ch'accusò Gioseppo; l'altr'è 'l falso Sinon greco di Troia: per febbre aguta gittan tanto leppo».
s-15 E l'un di lor, che si recò a noia forse d'esser nomato oscuro, col pugno li percosse l'epa croia.
s-16 Quella sonò come fosse un tamburo; e mastro Adamo li percosse il volto col braccio suo, che non parve men duro, dicendo a lui: «ancor che mi sia tolto lo muover per le membra che son gravi, ho io il braccio a tal mestiere sciolto».
s-17 Ond'ei rispuose: «Quando tu andavi al fuoco, non l'avei tu così presto; ma e più l'avei quando coniavi».
s-18 E l'idropico: «Tu di' ver di questo: ma tu non fosti ver testimonio 've del ver fosti a Troia richesto».
s-19 «S'io dissi falso, e tu falsasti il conio», disse Sinon; «e son qui per un fallo, e tu per più ch'alcun altro demonio!».
s-20 «Ricorditi , spergiuro, del cavallo», rispuose quel ch'avea infiata l'epa; «e sieti reo che tutto il mondo sallo !».
s-21 «E te sia rea la sete onde ti crepa», disse 'l Greco, «la lingua, e l'acqua marcia che 'l ventre innanzi a li occhi t'assiepa!».
s-22 Allora il monetier: «Così si squarcia la bocca tua per tuo mal come suole; ché, s'i' ho sete e omor mi rinfarcia, tu hai l'arsura e 'l capo che ti duole, e per leccar lo specchio di Narcisso, non vorresti a 'nvitar molte parole».
s-23 Ad ascoltarli er'io del tutto fisso, quando 'l maestro mi disse: «Or pur mira, che per poco che teco non mi risso!».
s-24 Quand'io 'l senti' a me parlar con ira, volsimi verso lui con tal vergogna, ch'ancor per la memoria mi si gira.
s-25 Qual è colui che suo dannaggio sogna, che sognando desidera sognare, che quel ch'è, come non fosse, agogna, tal mi fec'io, non possendo parlare, che disiava scusarmi , e scusava me tuttavia, e nol mi credea fare.
s-26 «Maggior difetto men vergogna lava», disse 'l maestro, «che 'l tuo non è stato; però d'ogne trestizia ti disgrava.
s-27 E fa ragion ch'io ti sia sempre allato, se più avvien che fortuna t'accoglia dove sien genti in simigliante piato: ché voler ciò udire è bassa voglia».
s-28 Una medesma lingua pria mi morse, che mi tinse l'una e l'altra guancia, e poi la medicina mi riporse; così od'io che solea far la lancia d'Achille e del suo padre esser cagione prima di trista e poi di buona mancia.
s-29 Noi demmo il dosso al misero vallone su per la ripa che 'l cinge dintorno, attraversando sanza alcun sermone.
s-30 Quiv'era men che notte e men che giorno, che 'l viso m'andava innanzi poco; ma io senti' sonare un alto corno, tanto ch'avrebbe ogne tuon fatto fioco, che, contra la sua via seguitando, dirizzò li occhi miei tutti ad un loco.
s-31 Dopo la dolorosa rotta, quando Carlo Magno perdé la santa gesta, non sonò terribilmente Orlando.
s-32 Poco portai in volta la testa, che me parve veder molte alte torri; ond'io: «Maestro, di', che terra è questa?».
s-33 Ed elli a me: «però che tu trascorri per le tenebre troppo da la lungi, avvien che poi nel maginare abborri.
s-34 Tu vedrai ben, se tu ti congiungi, quanto 'l senso s'inganna di lontano; però alquanto più te stesso pungi».
s-35 Poi caramente mi prese per mano e disse: «pria che noi siam più avanti, acciò che 'l fatto men ti paia strano, sappi che non son torri, ma giganti, e son nel pozzo intorno da la ripa da l'umbilico in giuso tutti quanti».
s-36 Come quando la nebbia si dissipa, lo sguardo a poco a poco raffigura ciò che cela 'l vapor che l'aere stipa, così forando l'aura grossa e scura, più e più appressando ver' la sponda, fuggiemi errore e cresciemi paura; però che, come su la cerchia tonda Montereggion di torri si corona, così la proda che 'l pozzo circonda torreggiavan di mezza la persona li orribili giganti, cui minaccia Giove del cielo ancora quando tuona.
s-37 E io scorgeva già d'alcun la faccia, le spalle e 'l petto e del ventre gran parte, e per le coste giù ambo le braccia.
s-38 Natura certo, quando lasciò l'arte di fatti animali, assai bene per tòrre tali essecutori a Marte.
s-39 E s'ella d'elefanti e di balene non si pente, chi guarda sottilmente, più giusta e più discreta la ne tene; ché dove l'argomento de la mente s'aggiugne al mal volere e a la possa, nessun riparo vi può far la gente.
s-40 La faccia sua mi parea lunga e grossa come la pina di San Pietro a Roma, e a sua proporzione eran l'altre ossa; che la ripa, ch'era perizoma dal mezzo in giù, ne mostrava ben tanto di sovra, che di giugnere a la chioma tre Frison s'averien dato mal vanto; però ch'i' ne vedea trenta gran palmi dal loco in giù dov'omo affibbia 'l manto.
s-41 «Raphèl maì amècche zabì almi», cominciò a gridar la fiera bocca, cui non si convenia più dolci salmi.
s-42 E 'l duca mio ver' lui: «Anima sciocca, tienti col corno, e con quel ti disfoga quand'ira o altra passion ti tocca!
s-43 Cércati al collo, e troverai la soga che 'l tien legato, o anima confusa, e vedi lui che 'l gran petto ti doga».
s-44 Poi disse a me: «Elli stessi s'accusa; questi è Nembrotto per lo cui mal coto pur un linguaggio nel mondo non s'usa.
s-45 Lasciànlo stare e non parliamo a vòto; ché così è a lui ciascun linguaggio come 'l suo ad altrui, ch'a nullo è noto».
s-46 Facemmo adunque più lungo viaggio, vòlti a sinistra; e al trar d'un balestro, trovammo l'altro assai più fero e maggio.
s-47 A cigner lui qual che fosse 'l maestro, non so io dir, ma el tenea soccinto dinanzi l'altro e dietro il braccio destro d'una catena che 'l tenea avvinto dal collo in giù, che 'n su lo scoperto si ravvolgea infino al giro quinto.
s-48 «Questo superbo volle esser esperto di sua potenza contra 'l sommo Giove», disse 'l mio duca, «ond'elli ha cotal merto.
s-49 Fialte ha nome, e fece le gran prove quando i giganti fer paura a' dèi; le braccia ch'el menò, già mai non move».
s-50 E io a lui: «S'esser puote, io vorrei che de lo smisurato Briareo esperienza avesser li occhi miei».
s-51 Ond'ei rispuose: «Tu vedrai Anteo presso di qui che parla ed è disciolto, che ne porrà nel fondo d'ogne reo.
s-52 Quel che tu vuo' veder, più è molto, ed è legato e fatto come questo, salvo che più feroce par nel volto».
s-53 Non fu tremoto già tanto rubesto, che scotesse una torre così forte, come Fialte a scuotersi fu presto.
s-54 Allor temett'io più che mai la morte, e non v'era mestier più che la dotta, s'io non avessi viste le ritorte.
s-55 Noi procedemmo più avante allotta, e venimmo ad Anteo, che ben cinque alle, sanza la testa, uscia fuor de la grotta.
s-56 «O tu che ne la fortunata valle che fece Scipion di gloria reda, quand'Anibàl co' suoi diede le spalle, recasti già mille leon per preda, e che, se fossi stato a l'alta guerra de' tuoi fratelli, ancor par che si creda ch'avrebber vinto i figli de la terra: mettine giù, e non ten vegna schifo, dove Cocito la freddura serra.
s-57 Non ci fare ire a Tizio a Tifo: questi può dar di quel che qui si brama; però ti china e non torcer lo grifo.
s-58 Ancor ti può nel mondo render fama, ch'el vive, e lunga vita ancor aspetta se 'nnanzi tempo grazia a nol chiama».
s-59 Così disse 'l maestro; e quelli in fretta le man distese, e prese 'l duca mio, ond'Ercule sentì già grande stretta.
s-60 Virgilio, quando prender si sentio, disse a me: «Fatti qua, ch'io ti prenda»; poi fece ch'un fascio era elli e io.
s-61 Qual pare a riguardar la Carisenda sotto 'l chinato, quando un nuvol vada sovr'essa , ched ella incontro penda: tal parve Anteo a me che stava a bada di vederlo chinare, e fu tal ora ch'i' avrei voluto ir per altra strada.
s-62 Ma lievemente al fondo che divora Lucifero con Giuda, ci sposò; , chinato, fece dimora, e come albero in nave si levò.
s-63 S'io avessi le rime aspre e chiocce, come si converrebbe al tristo buco sovra 'l qual pontan tutte l'altre rocce, io premerei di mio concetto il suco più pienamente; ma perch'io non l'abbo, non sanza tema a dicer mi conduco; ché non è impresa da pigliare a gabbo discriver fondo a tutto l'universo, da lingua che chiami mamma o babbo.
s-64 Ma quelle donne aiutino il mio verso ch'aiutaro Anfione a chiuder Tebe, che dal fatto il dir non sia diverso.
s-65 Oh sovra tutte mal creata plebe che stai nel loco onde parlare è duro, mei foste state qui pecore o zebe!
s-66 Come noi fummo giù nel pozzo scuro sotto i piè del gigante assai più bassi, e io mirava ancora a l'alto muro, dicere udi' mi: «Guarda come passi: va , che tu non calchi con le piante le teste de' fratei miseri lassi».
s-67 Per ch'io mi volsi, e vidimi davante e sotto i piedi un lago che per gelo avea di vetro e non d'acqua sembiante.
s-68 Non fece al corso suo grosso velo di verno la Danoia in Osterlicchi, Tanai sotto 'l freddo cielo, com'era quivi; che se Tambernicchi vi fosse caduto, o Pietrapana, non avria pur da l'orlo fatto cricchi.
s-69 E come a gracidar si sta la rana col muso fuor de l'acqua, quando sogna di spigolar sovente la villana, livide, insin dove appar vergogna eran l'ombre dolenti ne la ghiaccia, mettendo i denti in nota di cicogna.
s-70 Ognuna in giù tenea volta la faccia; da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo tra lor testimonianza si procaccia.
s-71 Quand'io m'ebbi dintorno alquanto visto, volsimi a' piedi, e vidi due stretti, che 'l pel del capo avieno insieme misto.
s-72 «Ditemi , voi che strignete i petti», diss'io, «chi siete?».
s-73 E quei piegaro i colli; e poi ch'ebber li visi a me eretti, li occhi lor, ch'eran pria pur dentro molli, gocciar su per le labbra, e 'l gelo strinse le lagrime tra essi e riserrolli .
s-74 Con legno legno spranga mai non cinse forte così; ond'ei come due becchi cozzaro insieme, tanta ira li vinse.
s-75 E un ch'avea perduti ambo li orecchi per la freddura, pur col viso in giùe, disse: «Perché cotanto in noi ti specchi?
s-76 Se vuoi saper chi son cotesti due, la valle onde Bisenzo si dichina del padre loro Alberto e di lor fue.
s-77 D'un corpo usciro; e tutta la Caina potrai cercare, e non troverai ombra degna più d'esser fitta in gelatina: non quelli a cui fu rotto il petto e l'ombra con esso un colpo per la man d'Artù; non Focaccia; non questi che m'ingombra col capo , ch'i' non veggio oltre più, e fu nomato Sassol Mascheroni; se tosco se', ben sai omai chi fu.
s-78 E perché non mi metti in più sermoni, sappi ch'i' fu' il Camiscion de' Pazzi; e aspetto Carlin che mi scagioni».
s-79 Poscia vid'io mille visi cagnazzi fatti per freddo; onde mi vien riprezzo, e verrà sempre, de' gelati guazzi.
s-80 E mentre ch'andavamo inver'lo mezzo al quale ogne gravezza si rauna, e io tremava ne l'etterno rezzo; se voler fu o destino o fortuna, non so; ma, passeggiando tra le teste, forte percossi 'l piè nel viso ad una.
s-81 Piangendo mi sgridò: «Perché mi peste? se tu non vieni a crescer la vendetta di Montaperti, perché mi moleste?».
s-82 E io: «Maestro mio, or qui m'aspetta, ch'io esca d'un dubbio per costui; poi mi farai, quantunque vorrai, fretta».
s-83 Lo duca stette, e io dissi a colui che bestemmiava duramente ancora: «Qual se' tu che così rampogni altrui?».
s-84 «Or tu chi se' che vai per l'Antenora, percotendo», rispuose, «altrui le gote, che, se fossi vivo, troppo fora?».
s-85 «Vivo son io, e caro esser ti puote», fu mia risposta, «se dimandi fama, ch'io metta il nome tuo tra l'altre note».
s-86 Ed elli a me: «Del contrario ho io brama.
s-87 Lèvati quinci e non mi dar più lagna, ché mal sai lusingar per questa lama!».
s-88 Allor lo presi per la cuticagna e dissi: «El converrà che tu ti nomi, o che capel qui non ti rimagna».
s-89 Ond'elli a me: «Perché tu mi dischiomi, ti dirò ch'io sia, mosterrolti se mille fiate in sul capo mi tomi».
s-90 Io avea già i capelli in mano avvolti, e tratto glien' avea più d'una ciocca, latrando lui con li occhi in giù raccolti, quando un altro gridò: «Che hai tu, Bocca? non ti basta sonar con le mascelle, se tu non latri? qual diavol ti tocca?».
s-91 «Omai», diss'io, «non vo' che più favelle, malvagio traditor; ch'a la tua onta io porterò di te vere novelle».
s-92 «Va via», rispuose, «e ciò che tu vuoi conta; ma non tacer, se tu di qua entro eschi, di quel ch'ebbe or così la lingua pronta.
s-93 El piange qui l'argento de' Franceschi: Io vidi, potrai dir, quel da Duera dove i peccatori stanno freschi.
s-94 Se fossi domandato Altri chi v'era?, tu hai dallato quel di Beccheria di cui segò Fiorenza la gorgiera.
s-95 Gianni de' Soldanier credo che sia più con Ganellone e Tebaldello, ch'aprì Faenza quando si dormia».
s-96 Noi eravam partiti già da ello, ch'io vidi due ghiacciati in una buca, che l'un capo a l'altro era cappello; e come 'l pan per fame si manduca, così 'l sovran li denti a l'altro pose 've 'l cervel s'aggiugne con la nuca: non altrimenti Tideo si rose le tempie a Menalippo per disdegno, che quei faceva il teschio e l'altre cose.
s-97 «O tu che mostri per bestial segno odio sovra colui che tu ti mangi, dimmi 'l perché», diss'io, «per tal convegno, che se tu a ragion di lui ti piangi, sappiendo chi voi siete e la sua pecca, nel mondo suso ancora io te ne cangi, se quella con ch'io parlo non si secca».
s-98 La bocca sollevò dal fiero pasto quel peccator, forbendola a' capelli del capo ch'elli avea di retro guasto.
s-99 Poi cominciò: «Tu vuo' ch'io rinovelli disperato dolor che 'l cor mi preme già pur pensando, pria ch'io ne favelli.
s-100 Ma se le mie parole esser dien seme che frutti infamia al traditor ch'i' rodo, parlare e lagrimar vedrai insieme.

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