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s-801 Danar si tolse, e lasciolli di piano, com'e' dice; e ne li altri offici anche barattier fu non picciol, ma sovrano.
s-802 Usa con esso donno Michel Zanche di Logodoro; e a dir di Sardigna le lingue lor non si sentono stanche.
s-803 Omè, vedete l'altro che digrigna; i' direi anche, ma i' temo ch'ello non s'apparecchi a grattarmi la tigna».
s-804 E 'l gran proposto, vòlto a Farfarello che stralunava li occhi per fedire, disse: «Fatti 'n costà, malvagio uccello!».
s-805 «Se voi volete vedere o udire», ricominciò lo spaurato appresso, «Toschi o Lombardi, io ne farò venire; ma stieno i Malebranche un poco in cesso, ch'ei non teman de le lor vendette; e io, seggendo in questo loco stesso, per un ch'io son, ne farò venir sette quand'io suffolerò, com'è nostro uso di fare allor che fori alcun si mette».
s-806 Cagnazzo a cotal motto levò 'l muso, crollando 'l capo, e disse: «Odi malizia ch'elli ha pensata per gittarsi giuso!».
s-807 Ond'ei, ch'avea lacciuoli a gran divizia, rispuose: «Malizioso son io troppo, quand'io procuro a' mia maggior trestizia».
s-808 Alichin non si tenne e, di rintoppo a li altri, disse a lui: «Se tu ti cali, io non ti verrò dietro di gualoppo, ma batterò sovra la pece l'ali.
s-809 Lascisi 'l collo, e sia la ripa scudo, a veder se tu sol più di noi vali».
s-810 O tu che leggi, udirai nuovo ludo: ciascun da l'altra costa li occhi volse, quel prima, ch'a ciò fare era più crudo.
s-811 Lo Navarrese ben suo tempo colse; fermò le piante a terra, e in un punto saltò e dal proposto lor si sciolse.
s-812 Di che ciascun di colpa fu compunto, ma quei più che cagion fu del difetto; però si mosse e gridò: «Tu se' giunto!».
s-813 Ma poco i valse: ché l'ali al sospetto non potero avanzar; quelli andò sotto, e quei drizzò volando suso il petto: non altrimenti l'anitra di botto, quando 'l falcon s'appressa, giù s'attuffa, ed ei ritorna crucciato e rotto.
s-814 Irato Calcabrina de la buffa, volando dietro li tenne, invaghito che quei campasse per aver la zuffa; e come 'l barattier fu disparito, così volse li artigli al suo compagno, e fu con lui sopra 'l fosso ghermito.
s-815 Ma l'altro fu bene sparvier grifagno ad artigliar ben lui, e amendue cadder nel mezzo del bogliente stagno.
s-816 Lo caldo sghermitor sùbito fue; ma però di levarsi era neente, avieno inviscate l'ali sue.
s-817 Barbariccia, con li altri suoi dolente, quattro ne volar da l'altra costa con tutt'i raffi, e assai prestamente di qua, di discesero a la posta; porser li uncini verso li 'mpaniati, ch'eran già cotti dentro da la crosta.
s-818 E noi lasciammo lor così 'mpacciati.
s-819 Taciti, soli, sanza compagnia n'andavam l'un dinanzi e l'altro dopo, come frati minor vanno per via.
s-820 Vòlt'era in su la favola d'Isopo lo mio pensier per la presente rissa, dov'el parlò de la rana e del topo ; ché più non si pareggia mo e issa che l'un con l'altro fa, se ben s'accoppia principio e fine con la mente fissa.
s-821 E come l'un pensier de l'altro scoppia, così nacque di quello un altro poi, che la prima paura mi doppia.
s-822 Io pensava così: Questi per noi sono scherniti con danno e con beffa fatta, ch'assai credo che lor nòi.
s-823 Se l'ira sovra 'l mal voler s'aggueffa, ei ne verranno dietro più crudeli che 'l cane a quella lievre ch'elli acceffa.
s-824 Già mi sentia tutti arricciar li peli de la paura e stava in dietro intento, quand'io dissi: «Maestro, se non celi te e me tostamente, i' ho pavento d'i Malebranche. Noi li avem già dietro; io li 'magino , che già li sento».
s-825 E quei: «S'i' fossi di piombato vetro, l'imagine di fuor tua non trarrei più tosto a me, che quella dentro 'mpetro.
s-826 Pur mo venieno i tuo' pensier tra ' miei, con simile atto e con simile faccia, che d'intrambi un sol consiglio fei.
s-827 S'elli è che la destra costa giaccia, che noi possiam ne l'altra bolgia scendere, noi fuggirem l'imaginata caccia».
s-828 Già non compié di tal consiglio rendere, ch'io li vidi venir con l'ali tese non molto lungi, per volerne prendere.
s-829 Lo duca mio di sùbito mi prese, come la madre ch'al romore è desta e vede presso a le fiamme accese, che prende il figlio e fugge e non s'arresta, avendo più di lui che di cura, tanto che solo una camiscia vesta; e giù dal collo de la ripa dura supin si diede a la pendente roccia, che l'un de' lati a l'altra bolgia tura.
s-830 Non corse mai tosto acqua per doccia a volger ruota di molin terragno, quand'ella più verso le pale approccia, come 'l maestro mio per quel vivagno, portandosene me sovra 'l suo petto, come suo figlio, non come compagno.
s-831 A pena fuoro i piè suoi giunti al letto del fondo giù, ch'e' furon in sul colle sovresso noi; ma non era sospetto: ché l'alta provedenza che lor volle porre ministri de la fossa quinta, poder di partirs' indi a tutti tolle.
s-832 giù trovammo una gente dipinta che giva intorno assai con lenti passi, piangendo e nel sembiante stanca e vinta.
s-833 Elli avean cappe con cappucci bassi dinanzi a li occhi, fatte de la taglia che in Clugnì per li monaci fassi .
s-834 Di fuor dorate son, ch'elli abbaglia; ma dentro tutte piombo, e gravi tanto, che Federigo le mettea di paglia.
s-835 Oh in etterno faticoso manto!
s-836 Noi ci volgemmo ancor pur a man manca con loro insieme, intenti al tristo pianto; ma per lo peso quella gente stanca venìa pian, che noi eravam nuovi di compagnia ad ogne mover d'anca.
s-837 Per ch'io al duca mio: «Fa che tu trovi alcun ch'al fatto o al nome si conosca, e li occhi, andando, intorno movi».
s-838 E un che 'ntese la parola tosca, di retro a noi gridò: «Tenete i piedi, voi che correte per l'aura fosca!
s-839 Forse ch'avrai da me quel che tu chiedi».
s-840 Onde 'l duca si volse e disse: «Aspetta, e poi secondo il suo passo procedi».
s-841 Ristetti, e vidi due mostrar gran fretta de l'animo, col viso, d'esser meco ; ma tardavali 'l carco e la via stretta.
s-842 Quando fuor giunti, assai con l'occhio bieco mi rimiraron sanza far parola; poi si volsero in , e dicean seco : «Costui par vivo a l'atto de la gola; e s'e' son morti, per qual privilegio vanno scoperti de la grave stola?».
s-843 Poi disser me: «O Tosco, ch'al collegio de l'ipocriti tristi se' venuto, dir chi tu se' non avere in dispregio».
s-844 E io a loro: «I' fui nato e cresciuto sovra 'l bel fiume d'Arno a la gran villa, e son col corpo ch'i' ho sempre avuto.
s-845 Ma voi chi siete, a cui tanto distilla quant'i' veggio dolor giù per le guance? e che pena è in voi che sfavilla?».
s-846 E l'un rispuose a me: «le cappe rance son di piombo grosse, che li pesi fan così cigolar le lor bilance.
s-847 Frati godenti fummo, e bolognesi; io Catalano e questi Loderingo nomati, e da tua terra insieme presi come suole esser tolto un uom solingo, per conservar sua pace; e fummo tali, ch'ancor si pare intorno dal Gardingo».
s-848 Io cominciai: «O frati, i vostri mali...»; ma più non dissi, ch'a l'occhio mi corse un, crucifisso in terra con tre pali.
s-849 Quando mi vide, tutto si distorse, soffiando ne la barba con sospiri; e 'l frate Catalan, ch'a ciò s'accorse, mi disse: «Quel confitto che tu miri, consigliò i Farisei che convenia porre un uom per lo popolo a' martìri.
s-850 Attraversato è, nudo, ne la via, come tu vedi, ed è mestier ch'el senta qualunque passa, come pesa, pria.
s-851 E a tal modo il socero si stenta in questa fossa, e li altri dal concilio che fu per li Giudei mala sementa».
s-852 Allor vid'io maravigliar Virgilio sovra colui ch'era disteso in croce tanto vilmente ne l'etterno essilio.
s-853 Poscia drizzò al frate cotal voce: «Non vi dispiaccia, se vi lece, dirci s'a la man destra giace alcuna foce onde noi amendue possiamo uscirci , sanza costrigner de li angeli neri che vegnan d'esto fondo a dipartirci ».
s-854 Rispuose adunque: «Più che tu non speri s'appressa un sasso che da la gran cerchia si move e varca tutt'i vallon feri, salvo che 'n questo è rotto e nol coperchia; montar potrete su per la ruina, che giace in costa e nel fondo soperchia».
s-855 Lo duca stette un poco a testa china; poi disse: «Mal contava la bisogna colui che i peccator di qua uncina».
s-856 E 'l frate: «Io udi' già dire a Bologna del diavol vizi assai, tra ' quali udi' ch'elli è bugiardo e padre di menzogna».
s-857 Appresso il duca a gran passi sen , turbato un poco d'ira nel sembiante; ond'io da li 'ncarcati mi parti' dietro a le poste de le care piante.
s-858 In quella parte del giovanetto anno che 'l sole i crin sotto l'Aquario tempra e già le notti al mezzo sen vanno, quando la brina in su la terra assempra l'imagine di sua sorella bianca, ma poco dura a la sua penna tempra, lo villanello a cui la roba manca, si leva, e guarda, e vede la campagna biancheggiar tutta; ond'ei si batte l'anca, ritorna in casa, e qua e si lagna, come 'l tapin che non sa che si faccia; poi riede, e la speranza ringavagna, veggendo 'l mondo aver cangiata faccia in poco d'ora, e prende suo vincastro e fuor le pecorelle a pascer caccia.
s-859 Così mi fece sbigottir lo mastro quand'io li vidi turbar la fronte, e così tosto al mal giunse lo 'mpiastro; ché, come noi venimmo al guasto ponte, lo duca a me si volse con quel piglio dolce ch'io vidi prima a piè del monte.
s-860 Le braccia aperse, dopo alcun consiglio eletto seco riguardando prima ben la ruina, e diedemi di piglio.
s-861 E come quei ch'adopera ed estima, che sempre par che 'nnanzi si proveggia, così, levando me ver' la cima d'un ronchione, avvisava un'altra scheggia dicendo: «Sovra quella poi t'aggrappa; ma tenta pria s'è tal ch'ella ti reggia».
s-862 Non era via da vestito di cappa, ché noi a pena, ei lieve e io sospinto, potavam montar di chiappa in chiappa.
s-863 E se non fosse che da quel precinto più che da l'altro era la costa corta, non so di lui, ma io sarei ben vinto.
s-864 Ma perché Malebolge inver'la porta del bassissimo pozzo tutta pende, lo sito di ciascuna valle porta che l'una costa surge e l'altra scende; noi pur venimmo al fine in su la punta onde l'ultima pietra si scoscende.
s-865 La lena m'era del polmon munta quand'io fui , ch'i' non potea più oltre, anzi m'assisi ne la prima giunta.
s-866 «Omai convien che tu così ti spoltre», disse 'l maestro; «ché, seggendo in piuma, in fama non si vien, sotto coltre; sanza la qual chi sua vita consuma, cotal vestigio in terra di lascia, qual fummo in aere e in acqua la schiuma.
s-867 E però leva ; vinci l'ambascia con l'animo che vince ogne battaglia, se col suo grave corpo non s'accascia.
s-868 Più lunga scala convien che si saglia; non basta da costoro esser partito.
s-869 Se tu mi 'ntendi, or fa che ti vaglia».
s-870 Leva' mi allor, mostrandomi fornito meglio di lena ch'i' non mi sentia, e dissi: «Va, ch'i' son forte e ardito».
s-871 Su per lo scoglio prendemmo la via, ch'era ronchioso, stretto e malagevole, ed erto più assai che quel di pria.
s-872 Parlando andava per non parer fievole; onde una voce uscì de l'altro fosso, a parole formar disconvenevole.
s-873 Non so che disse, ancor che sovra 'l dosso fossi de l'arco già che varca quivi; ma chi parlava ad ire parea mosso.
s-874 Io era vòlto in giù, ma li occhi vivi non poteano ire al fondo per lo scuro; per ch'io: «Maestro, fa che tu arrivi da l'altro cinghio e dismontiam lo muro; ché, com'i' odo quinci e non intendo, così giù veggio e neente affiguro».
s-875 «Altra risposta», disse, «non ti rendo se non lo far; ché la dimanda onesta si de' seguir con l'opera tacendo».
s-876 Noi discendemmo il ponte da la testa dove s'aggiugne con l'ottava ripa, e poi mi fu la bolgia manifesta: e vidivi entro terribile stipa di serpenti, e di diversa mena che la memoria il sangue ancor mi scipa.
s-877 Più non si vanti Libia con sua rena; ché se chelidri, iaculi e faree produce, e cencri con anfisibena, tante pestilenzie ree mostrò già mai con tutta l'Etiopia con ciò che di sopra al Mar Rosso èe.
s-878 Tra questa cruda e tristissima copia correan genti nude e spaventate, sanza sperar pertugio o elitropia: con serpi le man dietro avean legate; quelle ficcavan per le ren la coda e 'l capo, ed eran dinanzi aggroppate.
s-879 Ed ecco a un ch'era da nostra proda, s'avventò un serpente che 'l trafisse dove 'l collo a le spalle s'annoda.
s-880 O tosto mai I si scrisse, com'el s'accese e arse, e cener tutto convenne che cascando divenisse; e poi che fu a terra distrutto, la polver si raccolse per stessa e 'n quel medesmo ritornò di butto.
s-881 Così per li gran savi si confessa che la fenice more e poi rinasce, quando al cinquecentesimo anno appressa; erba biado in sua vita non pasce, ma sol d'incenso lagrime e d'amomo, e nardo e mirra son l'ultime fasce.
s-882 E qual è quel che cade, e non sa como, per forza di demon ch'a terra il tira, o d'altra oppilazion che lega l'omo, quando si leva, che 'ntorno si mira tutto smarrito de la grande angoscia ch'elli ha sofferta, e guardando sospira: tal era 'l peccator levato poscia.
s-883 Oh potenza di Dio, quant'è severa, che cotai colpi per vendetta croscia!
s-884 Lo duca il domandò poi chi ello era; per ch'ei rispuose: «Io piovvi di Toscana, poco tempo è, in questa gola fiera.
s-885 Vita bestial mi piacque e non umana, come a mul ch'i' fui; son Vanni Fucci bestia, e Pistoia mi fu degna tana».
s-886 E io al duca: «Dilli che non mucci, e domanda che colpa qua giù 'l pinse; ch'io 'l vidi omo di sangue e di crucci».
s-887 E 'l peccator, che 'ntese, non s'infinse, ma drizzò verso me l'animo e 'l volto, e di trista vergogna si dipinse; poi disse: «Più mi duol che tu m'hai colto ne la miseria dove tu mi vedi, che quando fui de l'altra vita tolto.
s-888 Io non posso negar quel che tu chiedi; in giù son messo tanto perch'io fui ladro a la sagrestia d'i belli arredi, e falsamente già fu apposto altrui.
s-889 Ma perché di tal vista tu non godi, se mai sarai di fuor da' luoghi bui, apri li orecchi al mio annunzio, e odi.
s-890 Pistoia in pria d'i Neri si dimagra; poi Fiorenza rinova gente e modi.
s-891 Tragge Marte vapor di Val di Magra ch'è di torbidi nuvoli involuto; e con tempesta impetuosa e agra sovra Campo Picen fia combattuto; ond'ei repente spezzerà la nebbia, ch'ogne Bianco ne sarà feruto.
s-892 E detto l'ho perché doler ti debbia!».
s-893 Al fine de le sue parole il ladro le mani alzò con amendue le fiche, gridando: «Togli, Dio, ch'a te le squadro!».
s-894 Da indi in qua mi fuor le serpi amiche, perch'una li s'avvolse allora al collo, come dicesse «Non vo' che più diche»; e un'altra a le braccia, e rilegollo , ribadendo stessa dinanzi, che non potea con esse dare un crollo.
s-895 Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi d'incenerarti che più non duri, poi che 'n mal fare il seme tuo avanzi?
s-896 Per tutt'i cerchi de lo 'nferno scuri non vidi spirto in Dio tanto superbo, non quel che cadde a Tebe giù da' muri.
s-897 El si fuggì che non parlò più verbo; e io vidi un centauro pien di rabbia venir chiamando: «Ov'è, ov'è l'acerbo?».
s-898 Maremma non cred'io che tante n'abbia, quante bisce elli avea su per la groppa infin ove comincia nostra labbia.
s-899 Sovra le spalle, dietro da la coppa, con l'ali aperte li giacea un draco; e quello affuoca qualunque s'intoppa.
s-900 Lo mio maestro disse: «Questi è Caco, che, sotto 'l sasso di monte Aventino, di sangue fece spesse volte laco.

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