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s-502 I' cominciai: «Maestro, tu che vinci tutte le cose, fuor che ' demon duri ch'a l'intrar de la porta incontra uscinci , chi è quel grande che non par che curi lo 'ncendio e giace dispettoso e torto, che la pioggia non par che 'l marturi?».
s-503 E quel medesmo, che si fu accorto ch'io domandava il mio duca di lui, gridò: «Qual io fui vivo, tal son morto.
s-504 Se Giove stanchi 'l suo fabbro da cui crucciato prese la folgore aguta onde l'ultimo percosso fui; o s'elli stanchi li altri a muta a muta in Mongibello a la focina negra, chiamando Buon Vulcano, aiuta, aiuta!, com'el fece a la pugna di Flegra, e me saetti con tutta sua forza: non ne potrebbe aver vendetta allegra».
s-505 Allora il duca mio parlò di forza tanto, ch'i' non l'avea forte udito: «O Capaneo, in ciò che non s'ammorza la tua superbia, se' tu più punito; nullo martiro, fuor che la tua rabbia, sarebbe al tuo furor dolor compito».
s-506 Poi si rivolse a me con miglior labbia, dicendo: «Quei fu l'un d'i sette regi ch'assiser Tebe; ed ebbe e par ch'elli abbia Dio in disdegno, e poco par che 'l pregi; ma, com'io dissi lui, li suoi dispetti sono al suo petto assai debiti fregi.
s-507 Or mi vien dietro, e guarda che non metti, ancor, li piedi ne la rena arsiccia; ma sempre al bosco tien li piedi stretti».
s-508 Tacendo divenimmo 've spiccia fuor de la selva un picciol fiumicello, lo cui rossore ancor mi raccapriccia.
s-509 Quale del Bulicame esce ruscello che parton poi tra lor le peccatrici, tal per la rena giù sen giva quello.
s-510 Lo fondo suo e ambo le pendici fatt'era 'n pietra, e ' margini dallato ; per ch'io m'accorsi che 'l passo era lici.
s-511 «Tra tutto l'altro ch'i' t'ho dimostrato, poscia che noi intrammo per la porta lo cui sogliare a nessuno è negato, cosa non fu da li tuoi occhi scorta notabile com'è 'l presente rio, che sovra tutte fiammelle ammorta».
s-512 Queste parole fuor del duca mio; per ch'io 'l pregai che mi largisse 'l pasto di cui largito m'avea il disio.
s-513 «in mezzo mar siede un paese guasto», diss'elli allora, «che s'appella Creta, sotto 'l cui rege fu già 'l mondo casto.
s-514 Una montagna v'è che già fu lieta d'acqua e di fronde, che si chiamò Ida; or è diserta come cosa vieta.
s-515 Rea la scelse già per cuna fida del suo figliuolo, e per celarlo meglio, quando piangea, vi facea far le grida.
s-516 Dentro dal monte sta dritto un gran veglio, che tien volte le spalle inver'Dammiata e Roma guarda come suo speglio.
s-517 La sua testa è di fin oro formata, e puro argento son le braccia e 'l petto, poi è di rame infino a la forcata; da indi in giuso è tutto ferro eletto, salvo che 'l destro piede è terra cotta; e sta 'n su quel, più che 'n su l'altro, eretto.
s-518 Ciascuna parte, fuor che l'oro, è rotta d'una fessura che lagrime goccia, le quali, accolte, fóran quella grotta.
s-519 Lor corso in questa valle si diroccia; fanno Acheronte, Stige e Flegetonta; poi sen van giù per questa stretta doccia, infin, ove più non si dismonta, fanno Cocito; e qual sia quello stagno tu lo vedrai, però qui non si conta».
s-520 E io a lui: «Se 'l presente rigagno si diriva così dal nostro mondo, perché ci appar pur a questo vivagno?».
s-521 Ed elli a me: «Tu sai che 'l loco è tondo; e tutto che tu sie venuto molto, pur a sinistra, giù calando al fondo, non se' ancor per tutto 'l cerchio vòlto; per che, se cosa n'apparisce nova, non de' addur maraviglia al tuo volto».
s-522 E io ancor: «Maestro, ove si trova Flegetonta e Letè? ché de l'un taci, e l'altro di' che si fa d'esta piova».
s-523 «In tutte tue question certo mi piaci», rispuose, «ma 'l bollor de l'acqua rossa dovea ben solver l'una che tu faci.
s-524 Letè vedrai, ma fuor di questa fossa, dove vanno l'anime a lavarsi quando la colpa pentuta è rimossa».
s-525 Poi disse: «Omai è tempo da scostarsi dal bosco; fa che di retro a me vegne: li margini fan via, che non son arsi, e sopra loro ogne vapor si spegne».
s-526 Ora cen porta l'un de' duri margini; e 'l fummo del ruscel di sopra aduggia, che dal foco salva l'acqua e li argini.
s-527 Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia, temendo 'l fiotto che 'nver' lor s'avventa, fanno lo schermo perché 'l mar si fuggia; e quali Padoan lungo la Brenta, per difender lor ville e lor castelli, anzi che Carentana il caldo senta: a tale imagine eran fatti quelli, tutto che alti grossi, qual che si fosse, lo maestro félli .
s-528 Già eravam da la selva rimossi tanto, ch'i' non avrei visto dov'era, perch'io in dietro rivolto mi fossi, quando incontrammo d'anime una schiera che venian lungo l'argine, e ciascuna ci riguardava come suol da sera guardare uno altro sotto nuova luna; e ver' noi aguzzavan le ciglia come 'l vecchio sartor fa ne la cruna.
s-529 Così adocchiato da cotal famiglia, fui conosciuto da un, che mi prese per lo lembo e gridò: «Qual maraviglia!».
s-530 E io, quando 'l suo braccio a me distese, ficcai li occhi per lo cotto aspetto, che 'l viso abbrusciato non difese la conoscenza sua al mio 'ntelletto; e chinando la mano a la sua faccia, rispuosi: «Siete voi qui, ser Brunetto?».
s-531 E quelli: «O figliuol mio, non ti dispiaccia se Brunetto Latino un poco teco ritorna 'n dietro e lascia andar la traccia».
s-532 I' dissi lui: «Quanto posso, ven preco; e se volete che con voi m'asseggia, faròl , se piace a costui che vo seco ».
s-533 «O figliuol», disse, «qual di questa greggia s'arresta punto, giace poi cent'anni sanz'arrostarsi quando 'l foco il feggia.
s-534 Però va oltre: i' ti verrò a' panni; e poi rigiugnerò la mia masnada, che va piangendo i suoi etterni danni».
s-535 Io non osava scender de la strada per andar par di lui; ma 'l capo chino tenea com'uom che reverente vada.
s-536 El cominciò: «Qual fortuna o destino anzi l'ultimo qua giù ti mena? e chi è questi che mostra 'l cammino?».
s-537 « di sopra, in la vita serena», rispuos'io lui, «mi smarri' in una valle, avanti che l'età mia fosse piena.
s-538 Pur ier mattina le volsi le spalle: questi m'apparve, tornand'io in quella, e reducemi a ca per questo calle».
s-539 Ed elli a me: «Se tu segui tua stella, non puoi fallire a glorioso porto, se ben m'accorsi ne la vita bella; e s'io non fossi per tempo morto, veggendo il cielo a te così benigno, dato t'avrei a l'opera conforto.
s-540 Ma quello ingrato popolo maligno che discese di Fiesole ab antico, e tiene ancor del monte e del macigno, ti si farà, per tuo ben far, nimico; ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi si disconvien fruttare al dolce fico.
s-541 Vecchia fama nel mondo li chiama orbi; gent'è avara, invidiosa e superba: dai lor costumi fa che tu ti forbi.
s-542 La tua fortuna tanto onor ti serba, che l'una parte e l'altra avranno fame di te; ma lungi fia dal becco l'erba.
s-543 Faccian le bestie fiesolane strame di lor medesme, e non tocchin la pianta, s'alcuna surge ancora in lor letame, in cui riviva la sementa santa di que' Roman che vi rimaser quando fu fatto il nido di malizia tanta».
s-544 «Se fosse tutto pieno il mio dimando», rispuos'io lui, «voi non sareste ancora de l'umana natura posto in bando; ché 'n la mente m'è fitta, e or m'accora, la cara e buona imagine paterna di voi quando nel mondo ad ora ad ora m'insegnavate come l'uom s'etterna: e quant'io l'abbia in grado, mentr'io vivo convien che ne la mia lingua si scerna.
s-545 Ciò che narrate di mio corso scrivo, e serbolo a chiosar con altro testo a donna che saprà, s'a lei arrivo.
s-546 Tanto vogl'io che vi sia manifesto, pur che mia coscienza non mi garra, ch'a la Fortuna, come vuol, son presto.
s-547 Non è nuova a li orecchi miei tal arra: però giri Fortuna la sua rota come le piace, e 'l villan la sua marra».
s-548 Lo mio maestro allora in su la gota destra si volse in dietro e riguardommi ; poi disse: «Bene ascolta chi la nota».
s-549 per tanto di men parlando vommi con ser Brunetto, e dimando chi sono li suoi compagni più noti e più sommi.
s-550 Ed elli a me: «Saper d'alcuno è buono; de li altri fia laudabile tacerci , ché 'l tempo saria corto a tanto suono.
s-551 In somma sappi che tutti fur cherci e litterati grandi e di gran fama, d'un peccato medesmo al mondo lerci.
s-552 Priscian sen va con quella turba grama, e Francesco d'Accorso anche; e vedervi , s'avessi avuto di tal tigna brama, colui potei che dal servo de' servi fu trasmutato d'Arno in Bacchiglione, dove lasciò li mal protesi nervi.
s-553 Di più direi; ma 'l venire e 'l sermone più lungo esser non può, però ch'i' veggio surger nuovo fummo del sabbione.
s-554 Gente vien con la quale esser non deggio.
s-555 Sieti raccomandato il mio Tesoro, nel qual io vivo ancora, e più non cheggio».
s-556 Poi si rivolse, e parve di coloro che corrono a Verona il drappo verde per la campagna; e parve di costoro quelli che vince, non colui che perde.
s-557 Già era in loco onde s'udia 'l rimbombo de l'acqua che cadea ne l'altro giro, simile a quel che l'arnie fanno rombo, quando tre ombre insieme si partiro, correndo, d'una torma che passava sotto la pioggia de l'aspro martiro.
s-558 Venian ver' noi, e ciascuna gridava: «sòstati tu ch'a l'abito ne sembri esser alcun di nostra terra prava».
s-559 Ahimè, che piaghe vidi ne' lor membri, ricenti e vecchie, da le fiamme incese!
s-560 Ancor men duol pur ch'i' me ne rimembri.
s-561 A le lor grida il mio dottor s'attese; volse 'l viso ver' me, e «Or aspetta», disse «a costor si vuole esser cortese.
s-562 E se non fosse il foco che saetta la natura del loco, i' dicerei che meglio stesse a te che a lor la fretta».
s-563 Ricominciar, come noi restammo, ei l'antico verso; e quando a noi fuor giunti, fenno una rota di tutti e trei.
s-564 Qual sogliono i campion far nudi e unti, avvisando lor presa e lor vantaggio, prima che sien tra lor battuti e punti, così rotando, ciascuno il visaggio drizzava a me, che 'n contraro il collo faceva ai piè continuo viaggio.
s-565 E «Se miseria d'esto loco sollo rende in dispetto noi e nostri prieghi», cominciò l'uno, «e 'l tinto aspetto e brollo, la fama nostra il tuo animo pieghi a dirne chi tu se', che i vivi piedi così sicuro per lo 'nferno freghi.
s-566 Questi, l'orme di cui pestar mi vedi, tutto che nudo e dipelato vada, fu di grado maggior che tu non credi: nepote fu de la buona Gualdrada; Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita fece col senno assai e con la spada.
s-567 L'altro, ch'appresso me la rena trita, è Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce nel mondo dovria esser gradita.
s-568 E io, che posto son con loro in croce, Iacopo Rusticucci fui, e certo la fiera moglie più ch'altro mi nuoce».
s-569 S'i' fossi stato dal foco coperto, gittato mi sarei tra lor di sotto, e credo che 'l dottor l'avrìa sofferto; ma perch'io mi sarei brusciato e cotto, vinse paura la mia buona voglia che di loro abbracciar mi facea ghiotto.
s-570 Poi cominciai: «Non dispetto, ma doglia la vostra condizion dentro mi fisse, tanta che tardi tutta si dispoglia, tosto che questo mio segnor mi disse parole per le quali i' mi pensai che qual voi siete, tal gente venisse.
s-571 Di vostra terra sono, e sempre mai l'ovra di voi e li onorati nomi con affezion ritrassi e ascoltai.
s-572 Lascio lo fele e vo per dolci pomi promessi a me per lo verace duca; ma 'nfino al centro pria convien ch'i' tomi».
s-573 «Se lungamente l'anima conduca le membra tue», rispuose quelli ancora, «e se la fama tua dopo te luca, cortesia e valor se dimora ne la nostra città come suole, o se del tutto se n'è gita fora; ché Guiglielmo Borsiere, il qual si duole con noi per poco e va coi compagni, assai ne cruccia con le sue parole».
s-574 «La gente nuova e i sùbiti guadagni orgoglio e dismisura han generata, Fiorenza, in te, che tu già ten piagni».
s-575 Così gridai con la faccia levata; e i tre, che ciò inteser per risposta, guardar l'un l'altro com'al ver si guata.
s-576 «Se l'altre volte poco ti costa», rispuoser tutti, «il satisfare altrui, felice te se parli a tua posta!
s-577 Però, se campi d'esti luoghi bui e torni a riveder le belle stelle, quando ti gioverà dicere I' fui, fa che di noi a la gente favelle».
s-578 Indi rupper la rota, e a fuggirsi ali sembiar le gambe loro isnelle.
s-579 Un amen non saria possuto dirsi tosto così com'e' fuoro spariti; per ch'al maestro parve di partirsi .
s-580 Io lo seguiva, e poco eravam iti, che 'l suon de l'acqua n'era vicino, che per parlar saremmo a pena uditi.
s-581 Come quel fiume c'ha proprio cammino prima dal Monte Viso 'nver' levante, da la sinistra costa d'Apennino, che si chiama Acquacheta suso, avante che si divalli giù nel basso letto, e a Forlì di quel nome è vacante, rimbomba sovra San Benedetto de l'Alpe per cadere ad una scesa ove dovea per mille esser recetto; così, giù d'una ripa discoscesa, trovammo risonar quell'acqua tinta, che 'n poc'ora avria l'orecchia offesa.
s-582 Io avea una corda intorno cinta, e con essa pensai alcuna volta prender la lonza a la pelle dipinta.
s-583 Poscia ch'io l'ebbi tutta da me sciolta, come 'l duca m'avea comandato, porsila a lui aggroppata e ravvolta.
s-584 Ond'ei si volse inver'lo destro lato, e alquanto di lunge da la sponda la gittò giuso in quell'alto burrato.
s-585 «E' pur convien che novità risponda», dicea fra me medesmo, «al novo cenno che 'l maestro con l'occhio seconda».
s-586 Ahi quanto cauti li uomini esser dienno presso a color che non veggion pur l'ovra, ma per entro i pensier miran col senno!
s-587 El disse a me: «Tosto verrà di sovra ciò ch'io attendo e che il tuo pensier sogna; tosto convien ch'al tuo viso si scovra».
s-588 Sempre a quel ver c'ha faccia di menzogna de' l'uom chiuder le labbra fin ch'el puote, però che sanza colpa fa vergogna; ma qui tacer nol posso; e per le note di questa comedìa, lettor, ti giuro, s'elle non sien di lunga grazia vòte, ch'i' vidi per quell'aere grosso e scuro venir notando una figura in suso, maravigliosa ad ogne cor sicuro, come torna colui che va giuso talora a solver l'àncora ch'aggrappa o scoglio o altro che nel mare è chiuso, che 'n si stende e da piè si rattrappa.
s-589 «Ecco la fiera con la coda aguzza, che passa i monti e rompe i muri e l'armi!
s-590 Ecco colei che tutto 'l mondo appuzza!».
s-591 cominciò lo mio duca a parlarmi ; e accennolle che venisse a proda, vicino al fin d'i passeggiati marmi.
s-592 E quella sozza imagine di froda sen venne, e arrivò la testa e 'l busto, ma 'n su la riva non trasse la coda.
s-593 La faccia sua era faccia d'uom giusto, tanto benigna avea di fuor la pelle, e d'un serpente tutto l'altro fusto; due branche avea pilose insin l'ascelle; lo dosso e 'l petto e ambedue le coste dipinti avea di nodi e di rotelle.
s-594 Con più color, sommesse e sovraposte non fer mai drappi Tartari Turchi, fuor tai tele per Aragne imposte.
s-595 Come talvolta stanno a riva i burchi, che parte sono in acqua e parte in terra, e come tra li Tedeschi lurchi lo bivero s'assetta a far sua guerra, così la fiera pessima si stava su l'orlo ch'è di pietra e 'l sabbion serra.
s-596 Nel vano tutta sua coda guizzava, torcendo in la venenosa forca ch'a guisa di scorpion la punta armava.
s-597 Lo duca disse: «Or convien che si torca la nostra via un poco insino a quella bestia malvagia che colà si corca».
s-598 Però scendemmo a la destra mammella, e diece passi femmo in su lo stremo, per ben cessar la rena e la fiammella.
s-599 E quando noi a lei venuti semo, poco più oltre veggio in su la rena gente seder propinqua al loco scemo.
s-600 Quivi 'l maestro «Acciò che tutta piena esperienza d'esto giron porti», mi disse, «va, e vedi la lor mena.
s-601 Li tuoi ragionamenti sian corti; mentre che torni, parlerò con questa, che ne conceda i suoi omeri forti».

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