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s-403 Ma dimmi : quei de la palude pingue, che mena il vento, e che batte la pioggia, e che s'incontran con aspre lingue, perché non dentro da la città roggia sono ei puniti, se Dio li ha in ira? e se non li ha, perché sono a tal foggia?».
s-404 Ed elli a me «Perché tanto delira», disse, «lo 'ngegno tuo da quel che sòle? o ver la mente dove altrove mira?
s-405 Non ti rimembra di quelle parole con le quai la tua Etica pertratta le tre disposizion che 'l ciel non vole, incontenenza, malizia e la matta bestialitade? e come incontenenza men Dio offende e men biasimo accatta?
s-406 Se tu riguardi ben questa sentenza, e rechiti a la mente chi son quelli che di fuor sostegnon penitenza, tu vedrai ben perché da questi felli sien dipartiti, e perché men crucciata la divina vendetta li martelli».
s-407 «O sol che sani ogni vista turbata, tu mi contenti quando tu solvi, che, non men che saver, dubbiar m'aggrata.
s-408 Ancora in dietro un poco ti rivolvi», diss'io, « dove di' ch'usura offende la divina bontade, e 'l groppo solvi».
s-409 «Filosofia», mi disse, «a chi la 'ntende, nota, non pure in una sola parte, come natura lo suo corso prende dal divino 'ntelletto e da sua arte; e se tu ben la tua Fisica note, tu troverai, non dopo molte carte, che l'arte vostra quella, quanto pote, segue, come 'l maestro fa 'l discente; che vostr'arte a Dio quasi è nepote.
s-410 Da queste due, se tu ti rechi a mente lo Genesì dal principio, convene prender sua vita e avanzar la gente; e perché l'usuriere altra via tene, per natura e per la sua seguace dispregia, poi ch'in altro pon la spene.
s-411 Ma seguimi oramai, che 'l gir mi piace; ché i Pesci guizzan su per l'orizzonta, e 'l Carro tutto sovra 'l Coro giace, e 'l balzo via oltra si dismonta».
s-412 Era lo loco ov'a scender la riva venimmo, alpestro e, per quel che v'er'anco, tal, ch'ogne vista ne sarebbe schiva.
s-413 Qual è quella ruina che nel fianco di qua da Trento l'Adice percosse, o per tremoto o per sostegno manco, che da cima del monte, onde si mosse, al piano è la roccia discoscesa, ch'alcuna via darebbe a chi fosse: cotal di quel burrato era la scesa; e 'n su la punta de la rotta lacca l'infamia di Creti era distesa che fu concetta ne la falsa vacca; e quando vide noi, stesso morse, come quei cui l'ira dentro fiacca.
s-414 Lo savio mio inver'lui gridò: «Forse tu credi che qui sia 'l duca d'Atene, che nel mondo la morte ti porse?
s-415 Pàrtiti , bestia, ché questi non vene ammaestrato da la tua sorella, ma vassi per veder le vostre pene».
s-416 Qual è quel toro che si slaccia in quella c'ha ricevuto già 'l colpo mortale, che gir non sa, ma qua e saltella, vid'io lo Minotauro far cotale; e quello accorto gridò: «Corri al varco; mentre ch'e' 'nfuria, è buon che tu ti cale».
s-417 Così prendemmo via giù per lo scarco di quelle pietre, che spesso moviensi sotto i miei piedi per lo novo carco.
s-418 Io gia pensando; e quei disse: «Tu pensi forse a questa ruina, ch'è guardata da quell'ira bestial ch'i' ora spensi.
s-419 Or vo' che sappi che l'altra fiata ch'i' discesi qua giù nel basso inferno, questa roccia non era ancor cascata.
s-420 Ma certo poco pria, se ben discerno, che venisse colui che la gran preda levò a Dite del cerchio superno, da tutte parti l'alta valle feda tremò , ch'i' pensai che l'universo sentisse amor, per lo qual è chi creda più volte il mondo in caòsso converso; e in quel punto questa vecchia roccia, qui e altrove, tal fece riverso.
s-421 Ma ficca li occhi a valle, ché s'approccia la riviera del sangue in la qual bolle qual che per violenza in altrui noccia».
s-422 Oh cieca cupidigia e ira folle, che ci sproni ne la vita corta, e ne l'etterna poi mal c'immolle!
s-423 Io vidi un'ampia fossa in arco torta, come quella che tutto 'l piano abbraccia, secondo ch'avea detto la mia scorta; e tra 'l piè de la ripa ed essa, in traccia corrien centauri, armati di saette, come solien nel mondo andare a caccia.
s-424 Veggendoci calar, ciascun ristette, e de la schiera tre si dipartiro con archi e asticciuole prima elette; e l'un gridò da lungi: «A qual martiro venite voi che scendete la costa? Ditel costinci; se non, l'arco tiro».
s-425 Lo mio maestro disse: «La risposta farem noi a Chirón costà di presso: mal fu la voglia tua sempre tosta».
s-426 Poi mi tentò, e disse: «Quelli è Nesso, che morì per la bella Deianira, e di la vendetta elli stesso.
s-427 E quel di mezzo, ch'al petto si mira, è il gran Chirón, il qual nodrì Achille; quell'altro è Folo, che fu pien d'ira.
s-428 Dintorno al fosso vanno a mille a mille, saettando qual anima si svelle del sangue più che sua colpa sortille ».
s-429 Noi ci appressammo a quelle fiere isnelle: Chirón prese uno strale, e con la cocca fece la barba in dietro a le mascelle.
s-430 Quando s'ebbe scoperta la gran bocca, disse a' compagni: «Siete voi accorti che quel di retro move ciò ch'el tocca? Così non soglion far li piè d'i morti».
s-431 E 'l mio buon duca, che già li er'al petto, dove le due nature son consorti, rispuose: «Ben è vivo, e soletto mostrar li mi convien la valle buia; necessità 'l ci 'nduce, e non diletto.
s-432 Tal si partì da cantare alleluia che mi commise quest'officio novo: non è ladron, io anima fuia.
s-433 Ma per quella virtù per cu' io movo li passi miei per selvaggia strada, danne un de' tuoi, a cui noi siamo a provo, e che ne mostri dove si guada, e che porti costui in su la groppa, ché non è spirto che per l'aere vada».
s-434 Chirón si volse in su la destra poppa, e disse a Nesso: «Torna, e li guida, e fa cansar s'altra schiera v'intoppa».
s-435 Or ci movemmo con la scorta fida lungo la proda del bollor vermiglio, dove i bolliti facieno alte strida.
s-436 Io vidi gente sotto infino al ciglio; e 'l gran centauro disse: «E' son tiranni che dier nel sangue e ne l'aver di piglio.
s-437 Quivi si piangon li spietati danni; quivi è Alessandro, e Dionisio fero che Cicilia aver dolorosi anni.
s-438 E quella fronte c'ha 'l pel così nero, è Azzolino; e quell'altro ch'è biondo, è Opizzo da Esti, il qual per vero fu spento dal figliastro nel mondo».
s-439 Allor mi volsi al poeta, e quei disse: «Questi ti sia or primo, e io secondo».
s-440 Poco più oltre il centauro s'affisse sovr'una gente che 'nfino a la gola parea che di quel bulicame uscisse.
s-441 Mostrocci un'ombra da l'un canto sola, dicendo: «Colui fesse in grembo a Dio lo cor che 'n su Tamisi ancor si cola».
s-442 Poi vidi gente che di fuor del rio tenean la testa e ancor tutto 'l casso; e di costoro assai riconobb'io.
s-443 Così a più a più si facea basso quel sangue, che cocea pur li piedi; e quindi fu del fosso il nostro passo.
s-444 « come tu da questa parte vedi lo bulicame che sempre si scema», disse 'l centauro, «voglio che tu credi che da quest'altra a più a più giù prema lo fondo suo, infin ch'el si raggiunge ove la tirannia convien che gema.
s-445 La divina giustizia di qua punge quell'Attila che fu flagello in terra, e Pirro e Sesto; e in etterno munge le lagrime, che col bollor diserra, a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo, che fecero a le strade tanta guerra».
s-446 Poi si rivolse e ripassossi 'l guazzo.
s-447 Non era ancor di Nesso arrivato, quando noi ci mettemmo per un bosco che da neun sentiero era segnato.
s-448 Non fronda verde, ma di color fosco; non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti; non pomi v'eran, ma stecchi con tòsco.
s-449 Non han aspri sterpi folti quelle fiere selvagge che 'n odio hanno tra Cecina e Corneto i luoghi cólti.
s-450 Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno, che cacciar de le Strofade i Troiani con tristo annunzio di futuro danno.
s-451 Ali hanno late, e colli e visi umani, piè con artigli, e pennuto 'l gran ventre; fanno lamenti in su li alberi strani.
s-452 E 'l buon maestro «Prima che più entre, sappi che se' nel secondo girone», mi cominciò a dire, «e sarai mentre che tu verrai ne l'orribil sabbione.
s-453 Però riguarda ben; vederai cose che torrien fede al mio sermone».
s-454 Io sentia d'ogne parte trarre guai, e non vedea persona che 'l facesse; per ch'io tutto smarrito m'arrestai.
s-455 Cred'io ch'ei credette ch'io credesse che tante voci uscisser, tra quei bronchi, da gente che per noi si nascondesse.
s-456 Però disse 'l maestro: «Se tu tronchi qualche fraschetta d'una d'este piante, li pensier c'hai si faran tutti monchi».
s-457 Allor porsi la mano un poco avante e colsi un ramicel da un gran pruno; e 'l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?».
s-458 Da che fatto fu poi di sangue bruno, ricominciò a dir: «Perché mi scerpi? non hai tu spirto di pietade alcuno? Uomini fummo, e or siam fatti sterpi: ben dovrebb'esser la tua man più pia, se state fossimo anime di serpi».
s-459 Come d'un stizzo verde ch'arso sia da l'un de' capi, che da l'altro geme e cigola per vento che va via, de la scheggia rotta usciva insieme parole e sangue; ond'io lasciai la cima cadere, e stetti come l'uom che teme.
s-460 «S'elli avesse potuto creder prima», rispuose 'l savio mio, «anima lesa, ciò c'ha veduto pur con la mia rima, non averebbe in te la man distesa; ma la cosa incredibile mi fece indurlo ad ovra ch'a me stesso pesa.
s-461 Ma dilli chi tu fosti, che 'n vece d'alcun'ammenda tua fama rinfreschi nel mondo , dove tornar li lece».
s-462 E 'l tronco: « col dolce dir m'adeschi, ch'i' non posso tacere; e voi non gravi perch'io un poco a ragionar m'inveschi.
s-463 Io son colui che tenni ambo le chiavi del cor di Federigo, e che le volsi, serrando e diserrando, soavi, che dal secreto suo quasi ogn'uom tolsi; fede portai al glorioso offizio, tanto ch'i' ne perde' li sonni e ' polsi.
s-464 La meretrice che mai da l'ospizio di Cesare non torse li occhi putti, morte comune e de le corti vizio, infiammò contra me li animi tutti; e li 'nfiammati infiammar Augusto, che ' lieti onor tornaro in tristi lutti.
s-465 L'animo mio, per disdegnoso gusto, credendo col morir fuggir disdegno, ingiusto fece me contra me giusto.
s-466 Per le nove radici d'esto legno vi giuro che già mai non ruppi fede al mio segnor, che fu d'onor degno.
s-467 E se di voi alcun nel mondo riede, conforti la memoria mia, che giace ancor del colpo che 'nvidia le diede».
s-468 Un poco attese, e poi «Da ch'el si tace», disse 'l poeta a me, «non perder l'ora; ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace».
s-469 Ond'io a lui: «Domandal tu ancora di quel che credi ch'a me satisfaccia; ch'i' non potrei, tanta pietà m'accora».
s-470 Perciò ricominciò: «se l'om ti faccia liberamente ciò che 'l tuo dir priega, spirito incarcerato, ancor ti piaccia di dirne come l'anima si lega in questi nocchi; e dinne , se tu puoi, s'alcuna mai di tai membra si spiega».
s-471 Allor soffiò il tronco forte, e poi si convertì quel vento in cotal voce: «Brievemente sarà risposto a voi.
s-472 Quando si parte l'anima feroce dal corpo ond'ella stessa s'è disvelta, Minòs la manda a la settima foce.
s-473 Cade in la selva, e non l'è parte scelta; ma dove fortuna la balestra, quivi germoglia come gran di spelta.
s-474 Surge in vermena e in pianta silvestra: l'Arpie, pascendo poi de le sue foglie, fanno dolore, e al dolor fenestra.
s-475 Come l'altre verrem per nostre spoglie, ma non però ch'alcuna sen rivesta, ché non è giusto aver ciò ch'om si toglie.
s-476 Qui le strascineremo, e per la mesta selva saranno i nostri corpi appesi, ciascuno al prun de l'ombra sua molesta».
s-477 Noi eravamo ancora al tronco attesi, credendo ch'altro ne volesse dire, quando noi fummo d'un romor sorpresi, similemente a colui che venire sente 'l porco e la caccia a la sua posta, ch'ode le bestie, e le frasche stormire.
s-478 Ed ecco due da la sinistra costa, nudi e graffiati, fuggendo forte, che de la selva rompieno ogni rosta.
s-479 Quel dinanzi: «Or accorri, accorri, morte!».
s-480 E l'altro, cui pareva tardar troppo, gridava: «Lano, non furo accorte le gambe tue a le giostre dal Toppo!».
s-481 E poi che forse li fallia la lena, di e d'un cespuglio fece un groppo.
s-482 Di rietro a loro era la selva piena di nere cagne, bramose e correnti come veltri ch'uscisser di catena.
s-483 In quel che s'appiattò miser li denti, e quel dilaceraro a brano a brano; poi sen portar quelle membra dolenti.
s-484 Presemi allor la mia scorta per mano, e menommi al cespuglio che piangea per le rotture sanguinenti in vano.
s-485 «O Iacopo», dicea, «da Santo Andrea, che t'è giovato di me fare schermo? che colpa ho io de la tua vita rea?».
s-486 Quando 'l maestro fu sovr'esso fermo, disse «Chi fosti, che per tante punte soffi con sangue doloroso sermo?».
s-487 Ed elli a noi: «O anime che giunte siete a veder lo strazio disonesto c'ha le mie fronde da me disgiunte, raccoglietele al piè del tristo cesto.
s-488 I' fui de la città che nel Batista mutò 'l primo padrone; ond'ei per questo sempre con l'arte sua la farà trista; e se non fosse che 'n sul passo d'Arno rimane ancor di lui alcuna vista, que' cittadin che poi la rifondarno sovra 'l cener che d'Attila rimase, avrebber fatto lavorare indarno.
s-489 Io fei gibbetto a me de le mie case».
s-490 Poi che la carità del natio loco mi strinse, raunai le fronde sparte e rende' le a colui, ch'era già fioco.
s-491 Indi venimmo al fine ove si parte lo secondo giron dal terzo, e dove si vede di giustizia orribil arte.
s-492 A ben manifestar le cose nove, dico che arrivammo ad una landa che dal suo letto ogne pianta rimove.
s-493 La dolorosa selva l'è ghirlanda intorno, come 'l fosso tristo ad essa; quivi fermammo i passi a randa a randa.
s-494 Lo spazzo era una rena arida e spessa, non d'altra foggia fatta che colei che fu da' piè di Caton già soppressa.
s-495 O vendetta di Dio, quanto tu dei esser temuta da ciascun che legge ciò che fu manifesto a li occhi miei!
s-496 D'anime nude vidi molte gregge che piangean tutte assai miseramente, e parea posta lor diversa legge.
s-497 Supin giacea in terra alcuna gente, alcuna si sedea tutta raccolta, e altra andava continuamente.
s-498 Quella che giva 'ntorno era più molta, e quella men che giacea al tormento, ma più al duolo avea la lingua sciolta.
s-499 Sovra tutto 'l sabbion, d'un cader lento, piovean di foco dilatate falde, come di neve in alpe sanza vento.
s-500 Quali Alessandro in quelle parti calde d'India vide sopra 'l suo stuolo fiamme cadere infino a terra salde, per ch'ei provide a scalpitar lo suolo con le sue schiere, acciò che lo vapore mei si stingueva mentre ch'era solo: tale scendeva l'etternale ardore; onde la rena s'accendea, com'esca sotto focile, a doppiar lo dolore.
s-501 Sanza riposo mai era la tresca de le misere mani, or quindi or quinci escotendo da l'arsura fresca.
s-502 I' cominciai: «Maestro, tu che vinci tutte le cose, fuor che ' demon duri ch'a l'intrar de la porta incontra uscinci , chi è quel grande che non par che curi lo 'ncendio e giace dispettoso e torto, che la pioggia non par che 'l marturi?».

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