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s-204 Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo, le bocche aperse e mostrocci le sanne; non avea membro che tenesse fermo.
s-205 E 'l duca mio distese le sue spanne, prese la terra, e con piene le pugna la gittò dentro a le bramose canne.
s-206 Qual è quel cane ch'abbaiando agogna, e si racqueta poi che 'l pasto morde, ché solo a divorarlo intende e pugna, cotai si fecer quelle facce lorde de lo demonio Cerbero, che 'ntrona l'anime , ch'esser vorrebber sorde.
s-207 Noi passavam su per l'ombre che adona la greve pioggia, e ponavam le piante sovra lor vanità che par persona.
s-208 Elle giacean per terra tutte quante, fuor d'una ch'a seder si levò, ratto ch'ella ci vide passarsi davante.
s-209 «O tu che se' per questo 'nferno tratto», mi disse, «riconoscimi , se sai: tu fosti, prima ch'io disfatto, fatto».
s-210 E io a lui: «L'angoscia che tu hai forse ti tira fuor de la mia mente, che non par ch'i' ti vedessi mai.
s-211 Ma dimmi chi tu se' che 'n dolente loco se' messo e hai fatta pena, che, s'altra è maggio, nulla è spiacente».
s-212 Ed elli a me: «La tua città, ch'è piena d'invidia che già trabocca il sacco, seco mi tenne in la vita serena.
s-213 Voi cittadini mi chiamaste Ciacco: per la dannosa colpa de la gola, come tu vedi, a la pioggia mi fiacco.
s-214 E io anima trista non son sola, ché tutte queste a simil pena stanno per simil colpa». E più non parola.
s-215 Io li rispuosi: «Ciacco, il tuo affanno mi pesa , ch'a lagrimar mi 'nvita; ma dimmi , se tu sai, a che verranno li cittadin de la città partita; s'alcun v'è giusto; e dimmi la cagione per che l'ha tanta discordia assalita».
s-216 E quelli a me: «Dopo lunga tencione verranno al sangue, e la parte selvaggia caccerà l'altra con molta offensione.
s-217 Poi appresso convien che questa caggia infra tre soli, e che l'altra sormonti con la forza di tal che testé piaggia.
s-218 Alte terrà lungo tempo le fronti, tenendo l'altra sotto gravi pesi, come che di ciò pianga o che n'aonti.
s-219 Giusti son due, e non vi sono intesi; superbia, invidia e avarizia sono le tre faville c'hanno i cuori accesi».
s-220 Qui puose fine al lagrimabil suono.
s-221 E io a lui: «Ancor vo' che mi 'nsegni e che di più parlar mi facci dono.
s-222 Farinata e 'l Tegghiaio, che fuor degni, Iacopo Rusticucci, Arrigo e 'l Mosca e li altri ch'a ben far puoser li 'ngegni, dimmi ove sono e fa ch'io li conosca; ché gran disio mi stringe di savere se 'l ciel li addolcia, o lo 'nferno li attosca».
s-223 E quelli: «Ei son tra l'anime più nere; diverse colpe giù li grava al fondo: se tanto scendi, i potrai vedere.
s-224 Ma quando tu sarai nel dolce mondo, priegoti ch'a la mente altrui mi rechi: più non ti dico e più non ti rispondo».
s-225 Li diritti occhi torse allora in biechi; guardommi un poco e poi chinò la testa: cadde con essa a par de li altri ciechi.
s-226 E 'l duca disse a me: «Più non si desta di qua dal suon de l'angelica tromba, quando verrà la nimica podesta: ciascun rivederà la trista tomba, ripiglierà sua carne e sua figura, udirà quel ch'in etterno rimbomba».
s-227 trapassammo per sozza mistura de l'ombre e de la pioggia, a passi lenti, toccando un poco la vita futura; per ch'io dissi: «Maestro, esti tormenti crescerann'ei dopo la gran sentenza, o fier minori, o saran cocenti?».
s-228 Ed elli a me: «Ritorna a tua scienza, che vuol, quanto la cosa è più perfetta, più senta il bene, e così la doglienza.
s-229 Tutto che questa gente maladetta in vera perfezion già mai non vada, di più che di qua essere aspetta».
s-230 Noi aggirammo a tondo quella strada, parlando più assai ch'i' non ridico; venimmo al punto dove si digrada: quivi trovammo Pluto, il gran nemico.
s-231 «Pape Satàn, pape Satàn aleppe!», cominciò Pluto con la voce chioccia; e quel savio gentil, che tutto seppe, disse per confortarmi : «Non ti noccia la tua paura; ché, poder ch'elli abbia, non ci torrà lo scender questa roccia».
s-232 Poi si rivolse a quella 'nfiata labbia, e disse: «Taci, maladetto lupo! consuma dentro te con la tua rabbia.
s-233 Non è sanza cagion l'andare al cupo: vuolsi ne l'alto, dove Michele la vendetta del superbo strupo».
s-234 Quali dal vento le gonfiate vele caggiono avvolte, poi che l'alber fiacca, tal cadde a terra la fiera crudele.
s-235 Così scendemmo ne la quarta lacca, pigliando più de la dolente ripa che 'l mal de l'universo tutto insacca.
s-236 Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa nove travaglie e pene quant'io viddi? e perché nostra colpa ne scipa?
s-237 Come fa l'onda sovra Cariddi, che si frange con quella in cui s'intoppa, così convien che qui la gente riddi.
s-238 Qui vid'i' gente più ch'altrove troppa, e d'una parte e d'altra, con grand'urli, voltando pesi per forza di poppa.
s-239 Percoteansi 'ncontro; e poscia pur si rivolgea ciascun, voltando a retro, gridando: «Perché tieni?» e «Perché burli?».
s-240 Così tornavan per lo cerchio tetro da ogne mano a l'opposito punto, gridandosi anche loro ontoso metro; poi si volgea ciascun, quand'era giunto, per lo suo mezzo cerchio a l'altra giostra.
s-241 E io, ch'avea lo cor quasi compunto, dissi: «Maestro mio, or mi dimostra che gente è questa, e se tutti fuor cherci questi chercuti a la sinistra nostra».
s-242 Ed elli a me: «Tutti quanti fuor guerci de la mente in la vita primaia, che con misura nullo spendio ferci .
s-243 Assai la voce lor chiaro l'abbaia, quando vegnono a' due punti del cerchio dove colpa contraria li dispaia.
s-244 Questi fuor cherci, che non han coperchio piloso al capo, e papi e cardinali, in cui usa avarizia il suo soperchio».
s-245 E io: «Maestro, tra questi cotali dovre' io ben riconoscere alcuni che furo immondi di cotesti mali».
s-246 Ed elli a me: «Vano pensiero aduni: la sconoscente vita che i sozzi, ad ogne conoscenza or li fa bruni.
s-247 In etterno verranno a li due cozzi: questi resurgeranno del sepulcro col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi.
s-248 Mal dare e mal tener lo mondo pulcro ha tolto loro, e posti a questa zuffa: qual ella sia, parole non ci appulcro.
s-249 Or puoi, figliuol, veder la corta buffa d'i ben che son commessi a la fortuna, per che l'umana gente si rabbuffa; ché tutto l'oro ch'è sotto la luna e che già fu, di quest'anime stanche non poterebbe farne posare una».
s-250 «Maestro mio», diss'io, «or mi anche: questa fortuna di che tu mi tocche, che è, che i ben del mondo ha tra branche?».
s-251 E quelli a me: «Oh creature sciocche, quanta ignoranza è quella che v'offende!
s-252 Or vo' che tu mia sentenza ne 'mbocche.
s-253 Colui lo cui saver tutto trascende, fece li cieli e diè lor chi conduce , ch'ogne parte ad ogne parte splende, distribuendo igualmente la luce.
s-254 Similemente a li splendor mondani ordinò general ministra e duce che permutasse a tempo li ben vani di gente in gente e d'uno in altro sangue, oltre la difension d'i senni umani; per ch'una gente impera e l'altra langue, seguendo lo giudicio di costei, che è occulto come in erba l'angue.
s-255 Vostro saver non ha contasto a lei: questa provede, giudica, e persegue suo regno come il loro li altri dèi.
s-256 Le sue permutazion non hanno triegue: necessità la fa esser veloce; spesso vien chi vicenda consegue.
s-257 Quest'è colei ch'è tanto posta in croce pur da color che le dovrien dar lode, dandole biasmo a torto e mala voce; ma ella s'è beata e ciò non ode: con l'altre prime creature lieta volve sua spera e beata si gode.
s-258 Or discendiamo omai a maggior pieta; già ogne stella cade che saliva quand'io mi mossi, e 'l troppo star si vieta».
s-259 Noi ricidemmo il cerchio a l'altra riva sovr'una fonte che bolle e riversa per un fossato che da lei deriva.
s-260 L'acqua era buia assai più che persa; e noi, in compagnia de l'onde bige, intrammo giù per una via diversa.
s-261 In la palude va c'ha nome Stige questo tristo ruscel, quand'è disceso al piè de le maligne piagge grige.
s-262 E io, che di mirare stava inteso, vidi genti fangose in quel pantano, ignude tutte, con sembiante offeso.
s-263 Queste si percotean non pur con mano, ma con la testa e col petto e coi piedi, troncandosi co' denti a brano a brano.
s-264 Lo buon maestro disse: «Figlio, or vedi l'anime di color cui vinse l'ira; e anche vo' che tu per certo credi che sotto l'acqua è gente che sospira, e fanno pullular quest'acqua al summo, come l'occhio ti dice, u' che s'aggira.
s-265 Fitti nel limo dicon: Tristi fummo ne l'aere dolce che dal sol s'allegra, portando dentro accidioso fummo: or ci attristiam ne la belletta negra.
s-266 Quest'inno si gorgoglian ne la strozza, ché dir nol posson con parola integra».
s-267 Così girammo de la lorda pozza grand'arco, tra la ripa secca e 'l mézzo, con li occhi vòlti a chi del fango ingozza.
s-268 Venimmo al piè d'una torre al da sezzo.
s-269 Io dico, seguitando, ch'assai prima che noi fossimo al piè de l'alta torre, li occhi nostri n'andar suso a la cima per due fiammette che i vedemmo porre, e un'altra da lungi render cenno, tanto ch'a pena il potea l'occhio tòrre.
s-270 E io mi volsi al mar di tutto 'l senno; dissi: «Questo che dice? e che risponde quell'altro foco? e chi son quei che 'l fenno?».
s-271 Ed elli a me: «su per le sucide onde già scorgere puoi quello che s'aspetta, se 'l fummo del pantan nol ti nasconde».
s-272 Corda non pinse mai da saetta che corresse via per l'aere snella, com'io vidi una nave piccioletta venir per l'acqua verso noi in quella, sotto 'l governo d'un sol galeoto, che gridava: «Or se' giunta, anima fella!».
s-273 «Flegiàs, Flegiàs, tu gridi a vòto», disse lo mio segnore, «a questa volta: più non ci avrai che sol passando il loto».
s-274 Qual è colui che grande inganno ascolta che li sia fatto, e poi se ne rammarca, fecesi Flegiàs ne l'ira accolta.
s-275 Lo duca mio discese ne la barca, e poi mi fece intrare appresso lui; e sol quand'io fui dentro parve carca.
s-276 Tosto che 'l duca e io nel legno fui, segando se ne va l'antica prora de l'acqua più che non suol con altrui.
s-277 Mentre noi corravam la morta gora, dinanzi mi si fece un pien di fango, e disse: «Chi se' tu che vieni anzi ora?».
s-278 E io a lui: «S'i' vegno, non rimango; ma tu chi se', che se' fatto brutto?».
s-279 Rispuose: «Vedi che son un che piango».
s-280 E io a lui: «Con piangere e con lutto, spirito maladetto, ti rimani; ch'i' ti conosco, ancor sie lordo tutto».
s-281 Allor distese al legno ambo le mani; per che 'l maestro accorto lo sospinse, dicendo: «Via costà con li altri cani!».
s-282 Lo collo poi con le braccia mi cinse; basciommi 'l volto, e disse: «Alma sdegnosa, benedetta colei che 'n te s'incinse!
s-283 Quei fu al mondo persona orgogliosa; bontà non è che sua memoria fregi: così s'è l'ombra sua qui furiosa.
s-284 Quanti si tegnon or gran regi che qui staranno come porci in brago, di lasciando orribili dispregi!».
s-285 E io: «Maestro, molto sarei vago di vederlo attuffare in questa broda prima che noi uscissimo del lago».
s-286 Ed elli a me: «avante che la proda ti si lasci veder, tu sarai sazio: di tal disio convien che tu goda».
s-287 Dopo ciò poco vid'io quello strazio far di costui a le fangose genti, che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.
s-288 Tutti gridavano: «A Filippo Argenti!»; e 'l fiorentino spirito bizzarro in medesmo si volvea co' denti.
s-289 Quivi il lasciammo, che più non ne narro; ma ne l'orecchie mi percosse un duolo, per ch'io avante l'occhio intento sbarro.
s-290 Lo buon maestro disse: «Omai, figliuolo, s'appressa la città c'ha nome Dite, coi gravi cittadin, col grande stuolo».
s-291 E io: «Maestro, già le sue meschite entro certe ne la valle cerno, vermiglie come se di foco uscite fossero».
s-292 Ed ei mi disse: «Il foco etterno ch'entro l'affoca le dimostra rosse, come tu vedi in questo basso inferno».
s-293 Noi pur giugnemmo dentro a l'alte fosse che vallan quella terra sconsolata: le mura mi parean che ferro fosse.
s-294 Non sanza prima far grande aggirata, venimmo in parte dove il nocchier forte «Usciteci », gridò: «qui è l'intrata».
s-295 Io vidi più di mille in su le porte da ciel piovuti, che stizzosamente dicean: «Chi è costui che sanza morte va per lo regno de la morta gente?».
s-296 E 'l savio mio maestro fece segno di voler lor parlar segretamente.
s-297 Allor chiusero un poco il gran disdegno e disser: «Vien tu solo, e quei sen vada che ardito intrò per questo regno.
s-298 Sol si ritorni per la folle strada: pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai, che li ha' iscorta buia contrada».
s-299 Pensa, lettor, se io mi sconfortai nel suon de le parole maladette, ché non credetti ritornarci mai.
s-300 «O caro duca mio, che più di sette volte m'hai sicurtà renduta e tratto d'alto periglio che 'ncontra mi stette, non mi lasciar», diss'io, «così disfatto; e se 'l passar più oltre ci è negato, ritroviam l'orme nostre insieme ratto».
s-301 E quel segnor che m'avea menato, mi disse: «Non temer; ché 'l nostro passo non ci può tòrre alcun: da tal n'è dato.
s-302 Ma qui m'attendi, e lo spirito lasso conforta e ciba di speranza buona, ch'i' non ti lascerò nel mondo basso».
s-303 Così sen va, e quivi m'abbandona lo dolce padre, e io rimagno in forse, che e no nel capo mi tenciona.

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