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s-101 Io non so chi tu se' per che modo venuto se' qua giù; ma fiorentino mi sembri veramente quand'io t'odo.
s-102 Tu dei saper ch'i' fui conte Ugolino, e questi è l'arcivescovo Ruggieri: or ti dirò perché i son tal vicino.
s-103 Che per l'effetto de' suo' mai pensieri, fidandomi di lui, io fossi preso e poscia morto, dir non è mestieri; però quel che non puoi avere inteso, cioè come la morte mia fu cruda, udirai, e saprai s'e' m'ha offeso.
s-104 Breve pertugio dentro da la Muda, la qual per me ha 'l titol de la fame, e che conviene ancor ch'altrui si chiuda, m'avea mostrato per lo suo forame più lune già, quand'io feci 'l mal sonno che del futuro mi squarciò 'l velame.
s-105 Questi pareva a me maestro e donno, cacciando il lupo e ' lupicini al monte per che i Pisan veder Lucca non ponno.
s-106 Con cagne magre, studiose e conte Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi s'avea messi dinanzi da la fronte.
s-107 In picciol corso mi parieno stanchi lo padre e ' figli, e con l'agute scane mi parea lor veder fender li fianchi.
s-108 Quando fui desto innanzi la dimane, pianger senti' fra 'l sonno i miei figliuoli ch'eran con meco , e dimandar del pane.
s-109 Ben se' crudel, se tu già non ti duoli pensando ciò che 'l mio cor s'annunziava; e se non piangi, di che pianger suoli?
s-110 Già eran desti, e l'ora s'appressava che 'l cibo ne solea essere addotto, e per suo sogno ciascun dubitava; e io senti' chiavar l'uscio di sotto a l'orribile torre; ond'io guardai nel viso a' mie' figliuoi sanza far motto.
s-111 Io non piangea, dentro impetrai: piangevan elli; e Anselmuccio mio disse: Tu guardi , padre! che hai?.
s-112 Perciò non lacrimai rispuos'io tutto quel giorno la notte appresso, infin che l'altro sol nel mondo uscìo.
s-113 Come un poco di raggio si fu messo nel doloroso carcere, e io scorsi per quattro visi il mio aspetto stesso, ambo le man per lo dolor mi morsi; ed ei, pensando ch'io 'l fessi per voglia di manicar, di sùbito levorsi e disser: Padre, assai ci fia men doglia se tu mangi di noi: tu ne vestisti queste misere carni, e tu le spoglia.
s-114 Queta' mi allor per non farli più tristi; lo e l'altro stemmo tutti muti; ahi dura terra, perché non t'apristi?
s-115 Poscia che fummo al quarto venuti, Gaddo mi si gittò disteso a' piedi, dicendo: Padre mio, ché non m'aiuti?.
s-116 Quivi morì; e come tu mi vedi, vid'io cascar li tre ad uno ad uno tra 'l quinto e 'l sesto; ond'io mi diedi, già cieco, a brancolar sovra ciascuno, e due li chiamai, poi che fur morti.
s-117 Poscia, più che 'l dolor, poté 'l digiuno».
s-118 Quand'ebbe detto ciò, con li occhi torti riprese 'l teschio misero co' denti, che furo a l'osso, come d'un can, forti.
s-119 Ahi Pisa, vituperio de le genti del bel paese dove 'l suona, poi che i vicini a te punir son lenti, muovasi la Capraia e la Gorgona, e faccian siepe ad Arno in su la foce, ch'elli annieghi in te ogne persona!
s-120 Ché se 'l conte Ugolino aveva voce d'aver tradita te de le castella, non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.
s-121 Innocenti facea l'età novella, novella Tebe, Uguiccione e 'l Brigata e li altri due che 'l canto suso appella.
s-122 Noi passammo oltre, 've la gelata ruvidamente un'altra gente fascia, non volta in giù, ma tutta riversata.
s-123 Lo pianto stesso pianger non lascia, e 'l duol che truova in su li occhi rintoppo, si volge in entro a far crescer l'ambascia; ché le lagrime prime fanno groppo, e come visiere di cristallo, riempion sotto 'l ciglio tutto il coppo.
s-124 E avvegna che, come d'un callo, per la freddura ciascun sentimento cessato avesse del mio viso stallo, già mi parea sentire alquanto vento; per ch'io: «Maestro mio, questo chi move? non è qua giù ogne vapore spento?».
s-125 Ond'elli a me: «Avaccio sarai dove di ciò ti farà l'occhio la risposta, veggendo la cagion che 'l fiato piove».
s-126 E un de' tristi de la fredda crosta gridò a noi: «O anime crudeli tanto che data v'è l'ultima posta, levatemi dal viso i duri veli, ch'io sfoghi 'l duol che 'l cor m'impregna, un poco, pria che 'l pianto si raggeli».
s-127 Per ch'io a lui: «Se vuo' ch'i' ti sovvegna, dimmi chi se', e s'io non ti disbrigo, al fondo de la ghiaccia ir mi convegna».
s-128 Rispuose adunque: «I' son frate Alberigo; i' son quel da le frutta del mal orto, che qui riprendo dattero per figo».
s-129 «Oh!», diss'io lui, «or se' tu ancor morto?».
s-130 Ed elli a me: «Come 'l mio corpo stea nel mondo , nulla scienza porto.
s-131 Cotal vantaggio ha questa Tolomea, che spesse volte l'anima ci cade innanzi ch'Atropòs mossa le dea.
s-132 E perché tu più volontier mi rade le 'nvetriate lagrime dal volto, sappie che, tosto che l'anima trade come fec'io, il corpo suo l'è tolto da un demonio, che poscia il governa mentre che 'l tempo suo tutto sia vòlto.
s-133 Ella ruina in fatta cisterna; e forse pare ancor lo corpo suso de l'ombra che di qua dietro mi verna.
s-134 Tu 'l dei saper, se tu vien pur mo giuso: elli è ser Branca Doria, e son più anni poscia passati ch'el fu racchiuso».
s-135 «Io credo», diss'io lui, «che tu m'inganni; ché Branca Doria non morì unquanche, e mangia e bee e dorme e veste panni».
s-136 «Nel fosso », diss'el, «de' Malebranche, dove bolle la tenace pece, non era ancor giunto Michel Zanche, che questi lasciò il diavolo in sua vece nel corpo suo, ed un suo prossimano che 'l tradimento insieme con lui fece.
s-137 Ma distendi oggimai in qua la mano; aprimi li occhi».
s-138 E io non gliel' apersi; e cortesia fu lui esser villano.
s-139 Ahi Genovesi, uomini diversi d'ogne costume e pien d'ogne magagna, perché non siete voi del mondo spersi?
s-140 Ché col peggiore spirto di Romagna trovai di voi un tal, che per sua opra in anima in Cocito già si bagna, e in corpo par vivo ancor di sopra.
s-141 «Vexilla regis prodeunt inferni verso di noi; però dinanzi mira», disse 'l maestro mio, «se tu 'l discerni».
s-142 Come quando una grossa nebbia spira, o quando l'emisperio nostro annotta, par di lungi un molin che 'l vento gira, veder mi parve un tal dificio allotta; poi per lo vento mi ristrinsi retro al duca mio, ché non era altra grotta.
s-143 Già era, e con paura il metto in metro, dove l'ombre tutte eran coperte, e trasparien come festuca in vetro.
s-144 Altre sono a giacere; altre stanno erte, quella col capo e quella con le piante; altra, com'arco, il volto a' piè rinverte.
s-145 Quando noi fummo fatti tanto avante, ch'al mio maestro piacque di mostrarmi la creatura ch'ebbe il bel sembiante, d'innanzi mi si tolse e restarmi , «Ecco Dite», dicendo, «ed ecco il loco ove convien che di fortezza t'armi».
s-146 Com'io divenni allor gelato e fioco, nol dimandar, lettor, ch'i' non lo scrivo, però ch'ogne parlar sarebbe poco.
s-147 Io non mori' e non rimasi vivo; pensa oggimai per te, s'hai fior d'ingegno, qual io divenni, d'uno e d'altro privo.
s-148 Lo 'mperador del doloroso regno da mezzo 'l petto uscìa fuor de la ghiaccia; e più con un gigante io mi convegno, che i giganti non fan con le sue braccia: vedi oggimai quant'esser dee quel tutto ch'a così fatta parte si confaccia.
s-149 S'el fu bel com'elli è ora brutto, e contra 'l suo fattore alzò le ciglia, ben dee da lui proceder ogne lutto.
s-150 Oh quanto parve a me gran maraviglia quand'io vidi tre facce a la sua testa!
s-151 L'una dinanzi, e quella era vermiglia; l'altr'eran due, che s'aggiugnieno a questa sovresso 'l mezzo di ciascuna spalla, e giugnieno al loco de la cresta: e la destra parea tra bianca e gialla; la sinistra a vedere era tal, quali vegnon di onde 'l Nilo s'avvalla.
s-152 Sotto ciascuna uscivan due grand'ali, quanto si convenia a tanto uccello: vele di mar non vid'io mai cotali.
s-153 Non avean penne, ma di vispistrello era lor modo; e quelle svolazzava, che tre venti si movean da ello: quindi Cocito tutto s'aggelava.
s-154 Con sei occhi piangea, e per tre menti gocciava 'l pianto e sanguinosa bava.
s-155 Da ogne bocca dirompea co' denti un peccatore, a guisa di maciulla, che tre ne facea così dolenti.
s-156 A quel dinanzi il mordere era nulla verso 'l graffiar, che talvolta la schiena rimanea de la pelle tutta brulla.
s-157 «Quell'anima c'ha maggior pena», disse 'l maestro, «è Giuda Scariotto, che 'l capo ha dentro e fuor le gambe mena.
s-158 De li altri due c'hanno il capo di sotto, quel che pende dal nero ceffo è Bruto: vedi come si storce, e non fa motto!; e l'altro è Cassio che par membruto.
s-159 Ma la notte risurge, e oramai è da partir, ché tutto avem veduto».
s-160 Com'a lui piacque, il collo li avvinghiai; ed el prese di tempo e loco poste, e quando l'ali fuoro aperte assai, appigliò a le vellute coste; di vello in vello giù discese poscia tra 'l folto pelo e le gelate croste.
s-161 Quando noi fummo dove la coscia si volge, a punto in sul grosso de l'anche, lo duca, con fatica e con angoscia, volse la testa ov'elli avea le zanche, e aggrappossi al pel com'om che sale, che 'n inferno i' credea tornar anche.
s-162 «Attienti ben, ché per cotali scale», disse 'l maestro, ansando com'uom lasso, «conviensi dipartir da tanto male».
s-163 Poi uscì fuor per lo fóro d'un sasso e puose me in su l'orlo a sedere; appresso porse a me l'accorto passo.
s-164 Io levai li occhi e credetti vedere Lucifero com'io l'avea lasciato, e vidili le gambe in tenere; e s'io divenni allora travagliato, la gente grossa il pensi, che non vede qual è quel punto ch'io avea passato.
s-165 «Lèvati », disse 'l maestro, «in piede: la via è lunga e 'l cammino è malvagio, e già il sole a mezza terza riede».
s-166 Non era camminata di palagio 'v'eravam, ma natural burella ch'avea mal suolo e di lume disagio.
s-167 «prima ch'io de l'abisso mi divella, maestro mio», diss'io quando fui dritto, «a trarmi d'erro un poco mi favella: ov'è la ghiaccia? e questi com'è fitto sottosopra? e come, in poc'ora, da sera a mane ha fatto il sol tragitto?».
s-168 Ed elli a me: «Tu imagini ancora d'esser di dal centro, ov'io mi presi al pel del vermo reo che 'l mondo fóra.
s-169 Di fosti cotanto quant'io scesi; quand'io mi volsi, tu passasti 'l punto al qual si traggon d'ogne parte i pesi.
s-170 E se' or sotto l'emisperio giunto ch'è contraposto a quel che la gran secca coverchia, e sotto 'l cui colmo consunto fu l'uom che nacque e visse sanza pecca; tu hai i piedi in su picciola spera che l'altra faccia fa de la Giudecca.
s-171 Qui è da man, quando di è sera; e questi, che ne scala col pelo, fitto è ancora come prim'era.
s-172 Da questa parte cadde giù dal cielo; e la terra, che pria di qua si sporse, per paura di lui del mar velo, e venne a l'emisperio nostro; e forse per fuggir lui lasciò qui loco vòto quella ch'appar di qua, e ricorse».
s-173 Luogo è giù da Belzebù remoto tanto quanto la tomba si distende, che non per vista, ma per suono è noto d'un ruscelletto che quivi discende per la buca d'un sasso, ch'elli ha roso, col corso ch'elli avvolge, e poco pende.
s-174 Lo duca e io per quel cammino ascoso intrammo a ritornar nel chiaro mondo; e sanza cura aver d'alcun riposo, salimmo , el primo e io secondo, tanto ch'i' vidi de le cose belle che porta 'l ciel, per un pertugio tondo.
s-175 E quindi uscimmo a riveder le stelle.
s-176 Ed ecco un lustro sùbito trascorse da tutte parti per la gran foresta, tal che di balenar mi mise in forse.
s-177 Ma perché 'l balenar, come vien, resta, e quel, durando, più e più splendeva, nel mio pensier dicea: «Che cosa è questa?».
s-178 E una melodia dolce correva per l' aere luminoso; onde buon zelo mi riprender l' ardimento d' Eva, che dove ubidia la terra e 'l cielo, femmina, sola e pur testé formata, non sofferse di star sotto alcun velo; sotto 'l qual se divota fosse stata, avrei quelle ineffabili delizie sentite prima e più lunga fiata.
s-179 Mentr' io m' andava tra tante primizie de l' etterno piacer tutto sospeso, e disioso ancora a più letizie, dinanzi a noi, tal quale un foco acceso, ci si l' aere sotto i verdi rami; e 'l dolce suon per canti era già inteso.
s-180 O sacrosante Vergini, se fami, freddi o vigilie mai per voi soffersi, cagion mi sprona ch' io mercé vi chiami.
s-181 Or convien che Elicona per me versi, e Uranìe m' aiuti col suo coro forti cose a pensar mettere in versi.
s-182 Poco più oltre, sette alberi d' oro falsava nel parere il lungo tratto del mezzo ch' era ancor tra noi e loro; ma quand' i' fui presso di lor fatto, che l' obietto comun, che 'l senso inganna, non perdea per distanza alcun suo atto, la virtù ch' a ragion discorso ammanna, com' elli eran candelabri apprese, e ne le voci del cantare «Osanna».
s-183 Di sopra fiammeggiava il bello arnese più chiaro assai che luna per sereno di mezza notte nel suo mezzo mese.
s-184 Io mi rivolsi d' ammirazion pieno al buon Virgilio, ed esso mi rispuose con vista carca di stupor non meno.
s-185 Indi rendei l' aspetto a l' alte cose che si movieno incontr' a noi tardi, che foran vinte da novelle spose.
s-186 La donna mi sgridò: «Perché pur ardi ne l' affetto de le vive luci, e ciò che vien di retro a lor non guardi?».
s-187 Genti vid' io allor, come a lor duci, venire appresso, vestite di bianco; e tal candor di qua già mai non fuci .
s-188 L' acqua imprendea dal sinistro fianco, e rendea me la mia sinistra costa, s' io riguardava in lei, come specchio anco.
s-189 Quand' io da la mia riva ebbi tal posta, che solo il fiume mi facea distante, per veder meglio ai passi diedi sosta, e vidi le fiammelle andar davante, lasciando dietro a l' aere dipinto, e di tratti pennelli avean sembiante; che sopra rimanea distinto di sette liste, tutte in quei colori onde fa l' arco il Sole e Delia il cinto.
s-190 Questi ostendali in dietro eran maggiori che la mia vista; e, quanto a mio avviso, diece passi distavan quei di fori.
s-191 Sotto così bel ciel com' io diviso, ventiquattro seniori, a due a due, coronati venien di fiordaliso.
s-192 Tutti cantavan: «Benedicta tue ne le figlie d' Adamo, e benedette sieno in etterno le bellezze tue!».
s-193 Poscia che i fiori e l' altre fresche erbette a rimpetto di me da l' altra sponda libere fuor da quelle genti elette, come luce luce in ciel seconda, vennero appresso lor quattro animali, coronati ciascun di verde fronda.
s-194 Ognuno era pennuto di sei ali; le penne piene d' occhi; e li occhi d' Argo, se fosser vivi, sarebber cotali.
s-195 A descriver lor forme più non spargo rime, lettor; ch' altra spesa mi strigne, tanto ch' a questa non posso esser largo; ma leggi Ezechiel, che li dipigne come li vide da la fredda parte venir con vento e con nube e con igne; e quali i troverai ne le sue carte, tali eran quivi, salvo ch' a le penne Giovanni è meco e da lui si diparte.
s-196 Lo spazio dentro a lor quattro contenne un carro, in su due rote, triunfale, ch' al collo d' un grifon tirato venne.
s-197 Esso tendeva in l' una e l' altra ale tra la mezzana e le tre e tre liste, ch' a nulla, fendendo, facea male.
s-198 Tanto salivan che non eran viste; le membra d' oro avea quant' era uccello, e bianche l' altre, di vermiglio miste.
s-199 Non che Roma di carro così bello rallegrasse Affricano, o vero Augusto, ma quel del Sol saria pover con ello; quel del Sol che, sviando, fu combusto per l' orazion de la Terra devota, quando fu Giove arcanamente giusto.
s-200 Tre donne in giro da la destra rota venian danzando; l' una tanto rossa ch' a pena fora dentro al foco nota; l' altr' era come se le carni e l' ossa fossero state di smeraldo fatte; la terza parea neve testé mossa; e or parean da la bianca tratte, or da la rossa; e dal canto di questa l' altre toglien l' andare e tarde e ratte.

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