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s-1 Io non li conoscea; ma ei seguette, come suol seguitar per alcun caso, che l'un nomar un altro convenette, dicendo: «Cianfa dove fia rimaso?»; per ch'io, acciò che 'l duca stesse attento, mi puosi 'l dito su dal mento al naso.
s-2 Se tu se' or, lettore, a creder lento ciò ch'io dirò, non sarà maraviglia, ché io che 'l vidi, a pena il mi consento.
s-3 Com'io tenea levate in lor le ciglia, e un serpente con sei piè si lancia dinanzi a l'uno, e tutto a lui s'appiglia.
s-4 Co' piè di mezzo li avvinse la pancia e con li anterior le braccia prese; poi li addentò e l'una e l'altra guancia; li diretani a le cosce distese, e miseli la coda tra 'mbedue e dietro per le ren la ritese.
s-5 Ellera abbarbicata mai non fue ad alber , come l'orribil fiera per l'altrui membra avviticchiò le sue.
s-6 Poi s'appiccar, come di calda cera fossero stati, e mischiar lor colore, l'un l'altro già parea quel ch'era: come procede innanzi da l'ardore, per lo papiro suso, un color bruno che non è nero ancora e 'l bianco more.
s-7 Li altri due 'l riguardavano, e ciascuno gridava: «Omè, Agnel, come ti muti!
s-8 Vedi che già non se' due uno».
s-9 Già eran li due capi un divenuti, quando n'apparver due figure miste in una faccia, ov'eran due perduti.
s-10 Fersi le braccia due di quattro liste; le cosce con le gambe e 'l ventre e 'l casso divenner membra che non fuor mai viste.
s-11 Ogne primaio aspetto ivi era casso: due e nessun l'imagine perversa parea; e tal sen gio con lento passo.
s-12 Come 'l ramarro sotto la gran fersa dei canicular, cangiando sepe, folgore par se la via attraversa, pareva, venendo verso l'epe de li altri due, un serpentello acceso, livido e nero come gran di pepe; e quella parte onde prima è preso nostro alimento, a l'un di lor trafisse; poi cadde giuso innanzi lui disteso.
s-13 Lo trafitto 'l mirò, ma nulla disse; anzi, co' piè fermati, sbadigliava pur come sonno o febbre l'assalisse.
s-14 Elli 'l serpente e quei lui riguardava; l'un per la piaga e l'altro per la bocca fummavan forte, e 'l fummo si scontrava.
s-15 Taccia Lucano omai dov'e' tocca del misero Sabello e di Nasidio, e attenda a udir quel ch'or si scocca.
s-16 Taccia di Cadmo e d'Aretusa Ovidio, ché se quello in serpente e quella in fonte converte poetando, io non lo 'nvidio; ché due nature mai a fronte a fronte non trasmutò ch'amendue le forme a cambiar lor matera fosser pronte.
s-17 Insieme si rispuosero a tai norme, che 'l serpente la coda in forca fesse, e 'l feruto ristrinse insieme l'orme.
s-18 Le gambe con le cosce seco stesse s'appiccar , che 'n poco la giuntura non facea segno alcun che si paresse.
s-19 Togliea la coda fessa la figura che si perdeva , e la sua pelle si facea molle, e quella di dura.
s-20 Io vidi intrar le braccia per l'ascelle, e i due piè de la fiera, ch'eran corti, tanto allungar quanto accorciavan quelle.
s-21 Poscia li piè di rietro, insieme attorti, diventaron lo membro che l'uom cela, e 'l misero del suo n'avea due porti.
s-22 Mentre che 'l fummo l'uno e l'altro vela di color novo, e genera 'l pel suso per l'una parte e da l'altra il dipela, l'un si levò e l'altro cadde giuso, non torcendo però le lucerne empie, sotto le quai ciascun cambiava muso.
s-23 Quel ch'era dritto, il trasse ver' le tempie, e di troppa matera ch'in venne uscir li orecchi de le gote scempie; ciò che non corse in dietro e si ritenne di quel soverchio, naso a la faccia e le labbra ingrossò quanto convenne.
s-24 Quel che giacea, il muso innanzi caccia, e li orecchi ritira per la testa come face le corna la lumaccia; e la lingua, ch'avea unita e presta prima a parlar, si fende, e la forcuta ne l'altro si richiude; e 'l fummo resta.
s-25 L'anima ch'era fiera divenuta, suffolando si fugge per la valle, e l'altro dietro a lui parlando sputa.
s-26 Poscia li volse le novelle spalle, e disse a l'altro: «I' vo' che Buoso corra, com'ho fatt'io, carpon per questo calle».
s-27 Così vid'io la settima zavorra mutare e trasmutare; e qui mi scusi la novità se fior la penna abborra.
s-28 E avvegna che li occhi miei confusi fossero alquanto e l'animo smagato, non poter quei fuggirsi tanto chiusi, ch'i' non scorgessi ben Puccio Sciancato; ed era quel che sol, di tre compagni che venner prima, non era mutato; l'altr'era quel che tu, Gaville, piagni.
s-29 Godi, Fiorenza, poi che se' grande che per mare e per terra batti l'ali, e per lo 'nferno tuo nome si spande!
s-30 Tra li ladron trovai cinque cotali tuoi cittadini onde mi ven vergogna, e tu in grande orranza non ne sali.
s-31 Ma se presso al mattin del ver si sogna, tu sentirai, di qua da picciol tempo, di quel che Prato, non ch'altri, t'agogna.
s-32 E se già fosse, non saria per tempo.
s-33 Così foss'ei, da che pur esser dee! ché più mi graverà, com'più m'attempo.
s-34 Noi ci partimmo, e su per le scalee che n'avea fatto iborni a scender pria, rimontò 'l duca mio e trasse mee; e proseguendo la solinga via, tra le schegge e tra ' rocchi de lo scoglio lo piè sanza la man non si spedia.
s-35 Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio quando drizzo la mente a ciò ch'io vidi, e più lo 'ngegno affreno ch'i' non soglio, perché non corra che virtù nol guidi; che, se stella bona o miglior cosa m'ha dato 'l ben, ch'io stessi nol m'invidi.
s-36 Quante 'l villan ch'al poggio si riposa, nel tempo che colui che 'l mondo schiara la faccia sua a noi tien meno ascosa, come la mosca cede a la zanzara, vede lucciole giù per la vallea, forse colà dov'e' vendemmia e ara: di tante fiamme tutta risplendea l'ottava bolgia, com'io m'accorsi tosto che fui 've 'l fondo parea.
s-37 E qual colui che si vengiò con li orsi vide 'l carro d'Elia al dipartire, quando i cavalli al cielo erti levorsi , che nol potea con li occhi seguire, ch'el vedesse altro che la fiamma sola, come nuvoletta, in salire: tal si move ciascuna per la gola del fosso, ché nessuna mostra 'l furto, e ogne fiamma un peccatore invola.
s-38 Io stava sovra 'l ponte a veder surto, che s'io non avessi un ronchion preso, caduto sarei giù sanz'esser urto.
s-39 E 'l duca che mi vide tanto atteso, disse: «Dentro dai fuochi son li spirti; catun si fascia di quel ch'elli è inceso».
s-40 «Maestro mio», rispuos'io, «per udirti son io più certo; ma già m'era avviso che così fosse, e già voleva dirti : chi è 'n quel foco che vien diviso di sopra, che par surger de la pira dov'Eteòcle col fratel fu miso?».
s-41 Rispuose a me: « dentro si martira Ulisse e Diomede, e così insieme a la vendetta vanno come a l'ira; e dentro da la lor fiamma si geme l'agguato del caval che la porta onde uscì de' Romani il gentil seme.
s-42 Piangevisi entro l'arte per che, morta, Deidamìa ancor si duol d'Achille, e del Palladio pena vi si porta».
s-43 «S'ei posson dentro da quelle faville parlar», diss'io, «maestro, assai ten priego e ripriego, che 'l priego vaglia mille, che non mi facci de l'attender niego fin che la fiamma cornuta qua vegna; vedi che del disio ver' lei mi piego!».
s-44 Ed elli a me: «La tua preghiera è degna di molta loda, e io però l'accetto; ma fa che la tua lingua si sostegna.
s-45 Lascia parlare a me, ch'i' ho concetto ciò che tu vuoi; ch'ei sarebbero schivi, perch'e' fuor greci, forse del tuo detto».
s-46 Poi che la fiamma fu venuta quivi dove parve al mio duca tempo e loco, in questa forma lui parlare audivi: «O voi che siete due dentro ad un foco, s'io meritai di voi mentre ch'io vissi, s'io meritai di voi assai o poco quando nel mondo li alti versi scrissi, non vi movete; ma l'un di voi dica dove, per lui, perduto a morir gissi ».
s-47 Lo maggior corno de la fiamma antica cominciò a crollarsi mormorando, pur come quella cui vento affatica; indi la cima qua e menando, come fosse la lingua che parlasse, gittò voce di fuori e disse: «Quando mi diparti' da Circe, che sottrasse me più d'un anno presso a Gaeta, prima che Enea la nomasse, dolcezza di figlio, la pieta del vecchio padre, 'l debito amore lo qual dovea Penelopè far lieta, vincer potero dentro a me l'ardore ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto e de li vizi umani e del valore; ma misi me per l'alto mare aperto sol con un legno e con quella compagna picciola da la qual non fui diserto.
s-48 L'un lito e l'altro vidi infin la Spagna, fin nel Morrocco, e l'isola d'i Sardi, e l'altre che quel mare intorno bagna.
s-49 Io e ' compagni eravam vecchi e tardi quando venimmo a quella foce stretta dov'Ercule segnò li suoi riguardi acciò che l'uom più oltre non si metta; da la man destra mi lasciai Sibilia, da l'altra già m'avea lasciata Setta.
s-50 O frati, dissi, che per cento milia perigli siete giunti a l'occidente, a questa tanto picciola vigilia d'i nostri sensi ch'è del rimanente non vogliate negar l'esperienza, di retro al sol, del mondo sanza gente.
s-51 Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza.
s-52 Li miei compagni fec'io aguti, con questa orazion picciola, al cammino, che a pena poscia li avrei ritenuti; e volta nostra poppa nel mattino, de' remi facemmo ali al folle volo, sempre acquistando dal lato mancino.
s-53 Tutte le stelle già de l'altro polo vedea la notte, e 'l nostro tanto basso, che non surgea fuor del marin suolo.
s-54 Cinque volte racceso e tante casso lo lume era di sotto da la luna, poi che 'ntrati eravam ne l'alto passo, quando n'apparve una montagna, bruna per la distanza, e parvemi alta tanto quanto veduta non avea alcuna.
s-55 Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto; ché de la nova terra un turbo nacque e percosse del legno il primo canto.
s-56 Tre volte il girar con tutte l'acque; a la quarta levar la poppa in suso e la prora ire in giù, com'altrui piacque, infin che 'l mar fu sovra noi richiuso».
s-57 Già era dritta in la fiamma e queta per non dir più, e già da noi sen gia con la licenza del dolce poeta, quand'un'altra, che dietro a lei venìa, ne fece volger li occhi a la sua cima per un confuso suon che fuor n'uscia.
s-58 Come 'l bue cicilian che mugghiò prima col pianto di colui, e ciò fu dritto, che l'avea temperato con sua lima, mugghiava con la voce de l'afflitto, che, con tutto che fosse di rame, pur el pareva dal dolor trafitto; così, per non aver via forame dal principio nel foco, in suo linguaggio si convertian le parole grame.
s-59 Ma poscia ch'ebber colto lor viaggio su per la punta, dandole quel guizzo che dato avea la lingua in lor passaggio, udimmo dire: «O tu a cu' io drizzo la voce e che parlavi mo lombardo, dicendo Istra ten va, più non t'adizzo, perch'io sia giunto forse alquanto tardo, non t'incresca restare a parlar meco ; vedi che non incresce a me, e ardo!
s-60 Se tu pur mo in questo mondo cieco caduto se' di quella dolce terra latina ond'io mia colpa tutta reco, dimmi se Romagnuoli han pace o guerra; ch'io fui d'i monti intra Orbino e 'l giogo di che Tever si diserra».
s-61 Io era in giuso ancora attento e chino, quando il mio duca mi tentò di costa, dicendo: «Parla tu; questi è latino».
s-62 E io, ch'avea già pronta la risposta, sanza indugio a parlare incominciai: «O anima che se' giù nascosta, Romagna tua non è, e non fu mai, sanza guerra ne' cuor de' suoi tiranni; ma 'n palese nessuna or vi lasciai.
s-63 Ravenna sta come stata è molt'anni: l'aguglia da Polenta la si cova, che Cervia ricuopre co' suoi vanni.
s-64 La terra che già la lunga prova e di Franceschi sanguinoso mucchio, sotto le branche verdi si ritrova.
s-65 E 'l mastin vecchio e 'l nuovo da Verrucchio, che fecer di Montagna il mal governo, dove soglion fan d'i denti succhio.
s-66 Le città di Lamone e di Santerno conduce il lioncel dal nido bianco, che muta parte da la state al verno.
s-67 E quella cu' il Savio bagna il fianco, così com'ella sie' tra 'l piano e 'l monte, tra tirannia si vive e stato franco.
s-68 Ora chi se', ti priego che ne conte; non esser duro più ch'altri sia stato, se 'l nome tuo nel mondo tegna fronte».
s-69 Poscia che 'l foco alquanto ebbe rugghiato al modo suo, l'aguta punta mosse di qua, di , e poi diè cotal fiato: «S'i' credesse che mia risposta fosse a persona che mai tornasse al mondo, questa fiamma staria sanza più scosse; ma però che già mai di questo fondo non tornò vivo alcun, s'i' odo il vero, sanza tema d'infamia ti rispondo.
s-70 Io fui uom d'arme, e poi fui cordigliero, credendomi , cinto, fare ammenda; e certo il creder mio venìa intero, se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!, che mi rimise ne le prime colpe; e come e quare, voglio che m'intenda.
s-71 Mentre ch'io forma fui d'ossa e di polpe che la madre mi diè, l'opere mie non furon leonine, ma di volpe.
s-72 Li accorgimenti e le coperte vie io seppi tutte, e menai lor arte, ch'al fine de la terra il suono uscie.
s-73 Quando mi vidi giunto in quella parte di mia etade ove ciascun dovrebbe calar le vele e raccoglier le sarte, ciò che pria mi piacea, allor m'increbbe, e pentuto e confesso mi rendei; ahi miser lasso! e giovato sarebbe.
s-74 Lo principe d'i novi Farisei, avendo guerra presso a Laterano, e non con Saracin con Giudei, ché ciascun suo nimico era cristiano, e nessun era stato a vincer Acri mercatante in terra di Soldano, sommo officio ordini sacri guardò in , in me quel capestro che solea fare i suoi cinti più macri.
s-75 Ma come Costantin chiese Silvestro d'entro Siratti a guerir de la lebbre, così mi chiese questi per maestro a guerir de la sua superba febbre; domandommi consiglio, e io tacetti perché le sue parole parver ebbre.
s-76 E' poi ridisse: Tuo cuor non sospetti; finor t'assolvo, e tu m'insegna fare come Penestrino in terra getti.
s-77 Lo ciel poss'io serrare e diserrare, come tu sai; però son due le chiavi che 'l mio antecessor non ebbe care.
s-78 Allor mi pinser li argomenti gravi 've 'l tacer mi fu avviso 'l peggio, e dissi: Padre, da che tu mi lavi di quel peccato ov'io mo cader deggio, lunga promessa con l'attender corto ti farà triunfar ne l'alto seggio.
s-79 Francesco venne poi, com'io fu' morto, per me; ma un d'i neri cherubini li disse: Non portar; non mi far torto.
s-80 Venir se ne dee giù tra ' miei meschini perché diede 'l consiglio frodolente, dal quale in qua stato li sono a ' crini; ch'assolver non si può chi non si pente, pentere e volere insieme puossi per la contradizion che nol consente.
s-81 Oh me dolente! come mi riscossi quando mi prese dicendomi : Forse tu non pensavi ch'io loico fossi!.
s-82 A Minòs mi portò; e quelli attorse otto volte la coda al dosso duro; e poi che per gran rabbia la si morse, disse: Questi è d'i rei del foco furo; per ch'io dove vedi son perduto, e vestito, andando, mi rancuro».
s-83 Quand'elli ebbe 'l suo dir così compiuto, la fiamma dolorando si partio, torcendo e dibattendo 'l corno aguto.
s-84 Noi passamm'oltre, e io e 'l duca mio, su per lo scoglio infino in su l'altr'arco che cuopre 'l fosso in che si paga il fio a quei che scommettendo acquistan carco.
s-85 Chi poria mai pur con parole sciolte dicer del sangue e de le piaghe a pieno ch'i' ora vidi, per narrar più volte?
s-86 Ogne lingua per certo verria meno per lo nostro sermone e per la mente c'hanno a tanto comprender poco seno.
s-87 S'el s'aunasse ancor tutta la gente che già, in su la fortunata terra di Puglia, fu del suo sangue dolente per li Troiani e per la lunga guerra che de l'anella alte spoglie, come Livio scrive, che non erra, con quella che sentio di colpi doglie per contastare a Ruberto Guiscardo; e l'altra il cui ossame ancor s'accoglie a Ceperan, dove fu bugiardo ciascun Pugliese, e da Tagliacozzo, dove sanz'arme vinse il vecchio Alardo; e qual forato suo membro e qual mozzo mostrasse, d'aequar sarebbe nulla il modo de la nona bolgia sozzo.
s-88 Già veggia, per mezzul perdere o lulla, com'io vidi un, così non si pertugia, rotto dal mento infin dove si trulla.
s-89 Tra le gambe pendevan le minugia; la corata pareva e 'l tristo sacco che merda fa di quel che si trangugia.
s-90 Mentre che tutto in lui veder m'attacco, guardommi e con le man s'aperse il petto, dicendo: «Or vedi com'io mi dilacco! vedi come storpiato è Maometto! dinanzi a me sen va piangendo Alì, fesso nel volto dal mento al ciuffetto.
s-91 E tutti li altri che tu vedi qui, seminator di scandalo e di scisma fuor vivi, e però son fessi così.
s-92 Un diavolo è qua dietro che n'accisma crudelmente, al taglio de la spada rimettendo ciascun di questa risma, quand'avem volta la dolente strada; però che le ferite son richiuse prima ch'altri dinanzi li rivada.
s-93 Ma tu chi se' che 'n su lo scoglio muse, forse per indugiar d'ire a la pena ch'è giudicata in su le tue accuse?».
s-94 « morte 'l giunse ancor, colpa 'l mena», rispuose 'l mio maestro, «a tormentarlo ; ma per dar lui esperienza piena, a me, che morto son, convien menarlo per lo 'nferno qua giù di giro in giro; e quest'è ver così com'io ti parlo».
s-95 Più fuor di cento che, quando l'udiro, s'arrestaron nel fosso a riguardarmi per maraviglia, obliando il martiro.
s-96 «Or a fra Dolcin dunque che s'armi, tu che forse vedra' il sole in breve, s'ello non vuol qui tosto seguitarmi , di vivanda, che stretta di neve non rechi la vittoria al Noarese, ch'altrimenti acquistar non saria leve».
s-97 Poi che l'un piè per girsene sospese, Maometto mi disse esta parola; indi a partirsi in terra lo distese.
s-98 Un altro, che forata avea la gola e tronco 'l naso infin sotto le ciglia, e non avea mai ch'una orecchia sola, ristato a riguardar per maraviglia con li altri, innanzi a li altri aprì la canna, ch'era di fuor d'ogni parte vermiglia, e disse: «O tu cui colpa non condanna e cu' io vidi in su terra latina, se troppa simiglianza non m'inganna, rimembriti di Pier da Medicina, se mai torni a veder lo dolce piano che da Vercelli a Marcabò dichina.
s-99 E fa saper a' due miglior da Fano, a messer Guido e anco ad Angiolello, che, se l'antiveder qui non è vano, gittati saran fuor di lor vasello e mazzerati presso a la Cattolica per tradimento d'un tiranno fello.
s-100 Tra l'isola di Cipri e di Maiolica non vide mai gran fallo Nettuno, non da pirate, non da gente argolica.

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