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s-301 E quel segnor che m'avea menato, mi disse: «Non temer; ché 'l nostro passo non ci può tòrre alcun: da tal n'è dato.
s-302 Ma qui m'attendi, e lo spirito lasso conforta e ciba di speranza buona, ch'i' non ti lascerò nel mondo basso».
s-303 Così sen va, e quivi m'abbandona lo dolce padre, e io rimagno in forse, che e no nel capo mi tenciona.
s-304 Udir non potti quello ch'a lor porse; ma ei non stette con essi guari, che ciascun dentro a pruova si ricorse.
s-305 Chiuser le porte que' nostri avversari nel petto al mio segnor, che fuor rimase e rivolsesi a me con passi rari.
s-306 Li occhi a la terra e le ciglia avea rase d'ogne baldanza, e dicea ne' sospiri: «Chi m'ha negate le dolenti case!».
s-307 E a me disse: «Tu, perch'io m'adiri, non sbigottir, ch'io vincerò la prova, qual ch'a la difension dentro s'aggiri.
s-308 Questa lor tracotanza non è nova; ché già l'usaro a men segreta porta, la qual sanza serrame ancor si trova.
s-309 Sovr'essa vedestù la scritta morta: e già di qua da lei discende l'erta, passando per li cerchi sanza scorta, tal che per lui ne fia la terra aperta».
s-310 Quel color che viltà di fuor mi pinse veggendo il duca mio tornare in volta, più tosto dentro il suo novo ristrinse.
s-311 Attento si fermò com'uom ch'ascolta; ché l'occhio nol potea menare a lunga per l'aere nero e per la nebbia folta.
s-312 «Pur a noi converrà vincer la punga», cominciò el, «se non... Tal ne s'offerse.
s-313 Oh quanto tarda a me ch'altri qui giunga!».
s-314 I' vidi ben com'ei ricoperse lo cominciar con l'altro che poi venne, che fur parole a le prime diverse; ma nondimen paura il suo dir dienne , perch'io traeva la parola tronca forse a peggior sentenzia che non tenne.
s-315 «In questo fondo de la trista conca discende mai alcun del primo grado, che sol per pena ha la speranza cionca?».
s-316 Questa question fec'io; e quei «di rado incontra», mi rispuose, «che di noi faccia il cammino alcun per qual io vado.
s-317 Ver è ch'altra fiata qua giù fui, congiurato da quella Eritón cruda che richiamava l'ombre a' corpi sui.
s-318 Di poco era di me la carne nuda, ch'ella mi fece intrar dentr'a quel muro, per trarne un spirto del cerchio di Giuda.
s-319 Quell'è 'l più basso loco e 'l più oscuro, e 'l più lontan dal ciel che tutto gira: ben so 'l cammin; però ti fa sicuro.
s-320 Questa palude che 'l gran puzzo spira cigne dintorno la città dolente, u' non potemo intrare omai sanz'ira».
s-321 E altro disse, ma non l'ho a mente; però che l'occhio m'avea tutto tratto ver' l'alta torre a la cima rovente, dove in un punto furon dritte ratto tre furie infernal di sangue tinte, che membra feminine avieno e atto, e con idre verdissime eran cinte; serpentelli e ceraste avien per crine, onde le fiere tempie erano avvinte.
s-322 E quei, che ben conobbe le meschine de la regina de l'etterno pianto, «Guarda», mi disse, «le feroci Erine.
s-323 Quest'è Megera dal sinistro canto; quella che piange dal destro è Aletto; Tesifón è nel mezzo»; e tacque a tanto.
s-324 Con l'unghie si fendea ciascuna il petto; battiensi a palme e gridavan alto, ch'i' mi strinsi al poeta per sospetto.
s-325 «Vegna Medusa: 'l farem di smalto», dicevan tutte riguardando in giuso; «mal non vengiammo in Teseo l'assalto».
s-326 «Volgiti 'n dietro e tien lo viso chiuso; ché se 'l Gorgón si mostra e tu 'l vedessi, nulla sarebbe di tornar mai suso».
s-327 Così disse 'l maestro; ed elli stessi mi volse, e non si tenne a le mie mani, che con le sue ancor non mi chiudessi.
s-328 O voi ch'avete li 'ntelletti sani, mirate la dottrina che s'asconde sotto 'l velame de li versi strani.
s-329 E già venìa su per le torbide onde un fracasso d'un suon, pien di spavento, per cui tremavano amendue le sponde, non altrimenti fatto che d'un vento impetuoso per li avversi ardori, che fier la selva e sanz'alcun rattento li rami schianta, abbatte e porta fori; dinanzi polveroso va superbo, e fa fuggir le fiere e li pastori.
s-330 Li occhi mi sciolse e disse: «Or drizza il nerbo del viso su per quella schiuma antica per indi ove quel fummo è più acerbo».
s-331 Come le rane innanzi a la nimica biscia per l'acqua si dileguan tutte, fin ch'a la terra ciascuna s'abbica, vid'io più di mille anime distrutte fuggir così dinanzi ad un ch'al passo passava Stige con le piante asciutte.
s-332 Dal volto rimovea quell'aere grasso, menando la sinistra innanzi spesso; e sol di quell'angoscia parea lasso.
s-333 Ben m'accorsi ch'elli era da ciel messo, e volsimi al maestro; e quei segno ch'i' stessi queto ed inchinassi ad esso.
s-334 Ahi quanto mi parea pien di disdegno!
s-335 Venne a la porta e con una verghetta l'aperse, che non v'ebbe alcun ritegno.
s-336 «O cacciati del ciel, gente dispetta», cominciò elli in su l'orribil soglia, «ond'esta oltracotanza in voi s'alletta? Perché recalcitrate a quella voglia a cui non puote il fin mai esser mozzo, e che più volte v'ha cresciuta doglia? Che giova ne le fata dar di cozzo? Cerbero vostro, se ben vi ricorda, ne porta ancor pelato il mento e 'l gozzo».
s-337 Poi si rivolse per la strada lorda, e non motto a noi, ma sembiante d'omo cui altra cura stringa e morda che quella di colui che li è davante; e noi movemmo i piedi inver'la terra, sicuri appresso le parole sante.
s-338 Dentro li 'ntrammo sanz'alcuna guerra; e io, ch'avea di riguardar disio la condizion che tal fortezza serra, com'io fui dentro, l'occhio intorno invio: e veggio ad ogne man grande campagna, piena di duolo e di tormento rio.
s-339 come ad Arli, ove Rodano stagna, com'a Pola, presso del Carnaro ch'Italia chiude e suoi termini bagna, fanno i sepulcri tutt'il loco varo, così facevan quivi d'ogne parte, salvo che 'l modo v'era più amaro; ché tra li avelli fiamme erano sparte, per le quali eran del tutto accesi, che ferro più non chiede verun'arte.
s-340 Tutti li lor coperchi eran sospesi, e fuor n'uscivan duri lamenti, che ben parean di miseri e d'offesi.
s-341 E io: «Maestro, quai son quelle genti che, seppellite dentro da quell'arche, si fan sentir coi sospiri dolenti?».
s-342 E quelli a me: «Qui son li eresiarche con lor seguaci, d'ogne setta, e molto più che non credi son le tombe carche.
s-343 Simile qui con simile è sepolto, e i monimenti son più e men caldi».
s-344 E poi ch'a la man destra si fu vòlto, passammo tra i martìri e li alti spaldi.
s-345 Ora sen va per un secreto calle, tra 'l muro de la terra e li martìri, lo mio maestro, e io dopo le spalle.
s-346 «O virtù somma, che per li empi giri mi volvi», cominciai, «com'a te piace, parlami , e sodisfammi a' miei disiri.
s-347 La gente che per li sepolcri giace potrebbesi veder? già son levati tutt'i coperchi, e nessun guardia face».
s-348 E quelli a me: «Tutti saran serrati quando di Iosafàt qui torneranno coi corpi che hanno lasciati.
s-349 Suo cimitero da questa parte hanno con Epicuro tutti suoi seguaci, che l'anima col corpo morta fanno.
s-350 Però a la dimanda che mi faci quinc'entro satisfatto sarà tosto, e al disio ancor che tu mi taci».
s-351 E io: «Buon duca, non tegno riposto a te mio cuor se non per dicer poco, e tu m'hai non pur mo a ciò disposto».
s-352 «O Tosco che per la città del foco vivo ten vai così parlando onesto, piacciati di restare in questo loco.
s-353 La tua loquela ti fa manifesto di quella nobil patria natio, a la qual forse fui troppo molesto».
s-354 Subitamente questo suono uscìo d'una de l'arche; però m'accostai, temendo, un poco più al duca mio.
s-355 Ed el mi disse: «Volgiti ! Che fai? Vedi Farinata che s'è dritto: da la cintola in tutto 'l vedrai».
s-356 Io avea già il mio viso nel suo fitto; ed el s'ergea col petto e con la fronte com'avesse l'inferno a gran dispitto.
s-357 E l'animose man del duca e pronte mi pinser tra le sepulture a lui, dicendo: «le parole tue sien conte».
s-358 Com'io al piè de la sua tomba fui, guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso, mi dimandò: «Chi fuor li maggior tui?».
s-359 Io ch'era d'ubidir disideroso, non gliel celai, ma tutto gliel' apersi; ond'ei levò le ciglia un poco in suso; poi disse: «Fieramente furo avversi a me e a miei primi e a mia parte, che per due fiate li dispersi».
s-360 «S'ei fur cacciati, ei tornar d'ogne parte», rispuos'io lui, «l'una e l'altra fiata; ma i vostri non appreser ben quell'arte».
s-361 Allor surse a la vista scoperchiata un'ombra, lungo questa, infino al mento: credo che s'era in ginocchie levata.
s-362 Dintorno mi guardò, come talento avesse di veder s'altri era meco ; e poi che 'l sospecciar fu tutto spento, piangendo disse: «Se per questo cieco carcere vai per altezza d'ingegno, mio figlio ov'è? e perché non è teco ?».
s-363 E io a lui: «Da me stesso non vegno: colui ch'attende , per qui mi mena forse cui Guido vostro ebbe a disdegno».
s-364 Le sue parole e 'l modo de la pena m'avean di costui già letto il nome; però fu la risposta così piena.
s-365 Di sùbito drizzato gridò: «Come? dicesti elli ebbe? non viv'elli ancora? non fiere li occhi suoi lo dolce lume?».
s-366 Quando s'accorse d'alcuna dimora ch'io facea dinanzi a la risposta, supin ricadde e più non parve fora.
s-367 Ma quell'altro magnanimo, a cui posta restato m'era, non mutò aspetto, mosse collo, piegò sua costa; e continuando al primo detto, «S'elli han quell'arte», disse, «male appresa, ciò mi tormenta più che questo letto.
s-368 Ma non cinquanta volte fia raccesa la faccia de la donna che qui regge, che tu saprai quanto quell'arte pesa.
s-369 E se tu mai nel dolce mondo regge, dimmi : perché quel popolo è empio incontr'a' miei in ciascuna sua legge?».
s-370 Ond'io a lui: «Lo strazio e 'l grande scempio che fece l'Arbia colorata in rosso, tal orazion fa far nel nostro tempio».
s-371 Poi ch'ebbe sospirando il capo mosso, «A ciò non fu' io sol», disse, « certo sanza cagion con li altri sarei mosso.
s-372 Ma fu' io solo, dove sofferto fu per ciascun di tòrre via Fiorenza, colui che la difesi a viso aperto».
s-373 «Deh, se riposi mai vostra semenza», prega' io lui, «solvetemi quel nodo che qui ha 'nviluppata mia sentenza.
s-374 El par che voi veggiate, se ben odo, dinanzi quel che 'l tempo seco adduce, e nel presente tenete altro modo».
s-375 «Noi veggiam, come quei c'ha mala luce, le cose», disse, «che ne son lontano; cotanto ancor ne splende il sommo duce.
s-376 Quando s'appressano o son, tutto è vano nostro intelletto; e s'altri non ci apporta, nulla sapem di vostro stato umano.
s-377 Però comprender puoi che tutta morta fia nostra conoscenza da quel punto che del futuro fia chiusa la porta».
s-378 Allor, come di mia colpa compunto, dissi: «Or direte dunque a quel caduto che 'l suo nato è co' vivi ancor congiunto; e s'i' fui, dianzi, a la risposta muto, fate i saper che 'l fei perché pensava già ne l'error che m'avete soluto».
s-379 E già 'l maestro mio mi richiamava; per ch'i' pregai lo spirto più avaccio che mi dicesse chi con lu' istava.
s-380 Dissemi : «Qui con più di mille giaccio: qua dentro è 'l secondo Federico e 'l Cardinale; e de li altri mi taccio».
s-381 Indi s'ascose; e io inver'l'antico poeta volsi i passi, ripensando a quel parlar che mi parea nemico.
s-382 Elli si mosse; e poi, così andando, mi disse: «Perché se' tu smarrito?».
s-383 E io li sodisfeci al suo dimando.
s-384 «La mente tua conservi quel ch'udito hai contra te», mi comandò quel saggio; «E ora attendi qui», e drizzò 'l dito: «quando sarai dinanzi al dolce raggio di quella il cui bell'occhio tutto vede, da lei saprai di tua vita il viaggio».
s-385 Appresso mosse a man sinistra il piede: lasciammo il muro e gimmo inver'lo mezzo per un sentier ch'a una valle fiede, che 'nfin facea spiacer suo lezzo.
s-386 In su l'estremità d'un'alta ripa che facevan gran pietre rotte in cerchio, venimmo sopra più crudele stipa; e quivi, per l'orribile soperchio del puzzo che 'l profondo abisso gitta, ci raccostammo, in dietro, ad un coperchio d'un grand'avello, ov'io vidi una scritta che dicea: Anastasio papa guardo, lo qual trasse Fotin de la via dritta.
s-387 «Lo nostro scender conviene esser tardo, che s'ausi un poco in prima il senso al tristo fiato; e poi no i fia riguardo».
s-388 Così 'l maestro; e io «Alcun compenso», dissi lui, «trova che 'l tempo non passi perduto».
s-389 Ed elli: «Vedi ch'a ciò penso».
s-390 «Figliuol mio, dentro da cotesti sassi», cominciò poi a dir, «son tre cerchietti di grado in grado, come que' che lassi.
s-391 Tutti son pien di spirti maladetti; ma perché poi ti basti pur la vista, intendi come e perché son costretti.
s-392 D'ogne malizia, ch'odio in cielo acquista, ingiuria è 'l fine, ed ogne fin cotale o con forza o con frode altrui contrista.
s-393 Ma perché frode è de l'uom proprio male, più spiace a Dio; e però stan di sotto li frodolenti, e più dolor li assale.
s-394 Di violenti il primo cerchio è tutto; ma perché si fa forza a tre persone, in tre gironi è distinto e costrutto.
s-395 A Dio, a , al prossimo si pòne far forza, dico in loro e in lor cose, come udirai con aperta ragione.
s-396 Morte per forza e ferute dogliose nel prossimo si danno, e nel suo avere ruine, incendi e tollette dannose; onde omicide e ciascun che mal fiere, guastatori e predon, tutti tormenta lo giron primo per diverse schiere.
s-397 Puote omo avere in man violenta e ne' suoi beni; e però nel secondo giron convien che sanza pro si penta qualunque priva del vostro mondo, biscazza e fonde la sua facultade, e piange dov'esser de' giocondo.
s-398 Puossi far forza ne la deitade, col cor negando e bestemmiando quella, e spregiando natura e sua bontade; e però lo minor giron suggella del segno suo e Soddoma e Caorsa e chi, spregiando Dio col cor, favella.
s-399 La frode, ond'ogne coscienza è morsa, può l'omo usare in colui che 'n lui fida e in quel che fidanza non imborsa.
s-400 Questo modo di retro par ch'incida pur lo vinco d'amor che fa natura; onde nel cerchio secondo s'annida ipocresia, lusinghe e chi affattura, falsità, ladroneccio e simonia, ruffian, baratti e simile lordura.

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